All'inizio i due protagonisti sono di spalle, seduti su cubi bianchi. Si voltano verso il pubblico e l'azione prende il via come se qualcosa fosse già in atto e noi ci connettiamo in un certo momento quasi casuale. Un colloquio per l'esattezza. Che potrebbe sembrare dallo psicanalista ma poi la voce si rivela essere quella di una giornalista di un magazine patinato.
I due si descrivono. Entrambi provengono da famiglie borghesi: lui figlio di medico e casalinga è divenuto geologo esperto di energie alternative, lei figlia di magistrato e casalinga è divenuta avvocato. A Giovanni servono tempo e parole per parlare di sé: colto, viaggiatore, ha un lavoro che gli piace, tollerante, progressista, sportivo, ottimo amante, bravo padre, bravo figlio, in perfetto accordo con genitori, suoceri, amici, colleghi. A Marianna basta poco: moglie e madre. Ma quando l'intervista scende di più sui sentimenti, Marianna dice che la “felicità è essere soddisfatti di quello che si ha” e che la “fedeltà non può essere un'etichetta, un proposito deliberato”, utilizzando frasi fatte che rivelano insicurezza e fragilità, tenute sotto controllo tramite una griglia di rapporti convenzionali.
Emergono le prime crepe, dietro la facciata del matrimonio ideale. Rientrando da una cena, dove i padroni di casa hanno litigato furiosamente, Marianna e Giovanni si scontrano su una eventuale terza gravidanza. In ospedale, l'aborto lascia Marianna confusa, ferita e soprattutto incapace di spiegare i sentimenti con le parole, mentre il reale è visibile sotto gli occhi di tutti.
Gli impegni iniziano a pesare in modo insopportabile, Marianna vorrebbe disdire tutto: obblighi sociali, professionali, familiari. Ma non riesce neppure a rinunciare al pranzo domenicale dai genitori.
La stanchezza diviene tangibile nell'asfittica “casa di città”: “com'è che due che stanno insieme finiscono sempre per stancarsi un po'?”. La vita sessuale subisce rallentamenti, distrazioni (così si lamenta Giovanni). Ma c'è qualcos'altro oltre il sesso (replica Marianna). Eppure l'idillio è terminato: Marianna si arrovella, Giovanni resta in superficie. A nulla serve la presenza-assenza delle figlie. I condizionamenti esterni si fondono con le tensioni intime e di coppia.
La situazione esplode nella “casa di campagna”: Giovanni comunica che è innamorato di un'altra e che il giorno dopo parte con lei per Parigi, un vero trasferimento e non un viaggio di piacere. Marianna è confusa, disorientata. “E adesso?” La vita è ormai finita, inesorabilmente e senza riparo. “Perché tanta fretta nel dirmelo?” “Perché sono stanco e ho paura. Le cose stanno così e non ci si può fare niente”. Lo scontro verbale è inevitabile, lui per troppi anni è stato “educato, equilibrato, accorto” e si mostra ingenuo ai limiti del ridicolo alternato a una fredda, irritata distanza. Le dice “Chissà, fra una settimana forse sarò di nuovo a casa”. Lei si umilia a chiedergli “Promettimelo, anche se non è vero”.
Gli eventi della prima parte si svolgono in un breve lasso di tempo, quelli della seconda sono dilatati. Dopo un anno Giovanni ha il ciuffo ribelle ed è vestito in modo meno formale e ingessato, i jeans sdruciti, la t-shirt bianca che sbuca dal maglione. Lui vorrebbe riavvicinarsi per una sola sera, “desiderare ancora da soli è condizione terribile”, lei è irremovibile “ti amo ancora ma ti odio per quello che mi hai fatto. Sono ancora legata a te, la mia mia ha un senso solo accanto a te”. E non si fa neppure baciare.
Dopo due anni l'incontro è nello studio di lui per firmare le carte per il divorzio, Marianna pretende di fare l'amore in modo violento, sul pavimento, vendetta o sfida. Estranei che si feriscono. Indifferenza senza un briciolo di affetto. È questa la libertà? Inevitabile lo scontro verbale, ma si arriva anche alla violenza fisica.
Anni dopo, entrambi sposati con altre persone, sono divenuti amanti. Felici. Apparentemente.
La scena di Matteo Soltanto è praticamente unica, grandi teli bianchi che morbidamente scendono dall'alto e velano i mobili di scena quando non servono, anch'essi rigorosamente bianchi. I costumi di Francesco Verderame sono azzeccati nel rendere il passaggio lungo i vari momenti e con pochi, precisi tocchi descrivere i cambiamenti interiori e di situazione personale e professionale. Le luci di Paolo Mazzi danno pienezza agli interni in cui si snoda il percorso, introdotto in videografica da Alessio Fattori in modo da ritmare la sequenza delle scene e della loro collocazione nello spazio e nel tempo (adattati al contemporaneo e alla nostra cultura). Un ritmo cinematografico e al tempo stesso una forte impronta teatrale: Alessandro D'Alatri vince la sfida con un testo celeberrimo e crea uno spettacolo di profonda emozione e di viva tensione, anche grazie a un sapiente lavoro di adattamento con la traduzione di Piero Monaci. Strepitosa l'interpretazione di Daniele Pecci e Federica Di Martino, belli da copertina e bravi da premio, intensi e credibili in ogni momento. A loro si deve la sospensione del respiro per l'intero spettacolo, un teso arco drammatico che non consente pause, rendendo ultroneo l'intervallo. Chi siede in platea resta irretito dalla loro bravura e dalla perfezione del lavoro di D'Alatri. E gli applausi sono scroscianti alla fine.