Quando si riflette sull’ultima opera di un compositore viene spesso spontaneo guardare ad essa come ad una sorta di testamento, magari sbagliando ed attribuendole un significato che non ha, ma non è questo il caso della Nona Sinfonia di Gustav Mahler, eseguita al Teatro Alla Scala dall’Orchestra Filarmonica della Scala, diretta da un ispiratissimo Daniele Gatti, che, nonostante manchi un’esplicita indicazione da parte dell’autore, è universalmente riconosciuta, a partire da una celebre lettera che in proposito scrisse il musicista Alban Berg, come una riflessione sulla morte.
Morte e dissolvimento
Il tema della morte ha da sempre accompagnato l’opera di Mahler, basti pensare alla quasi costante presenza di marce funebri nelle sue opere, tuttavia, in questo caso, come nel precedente Lied von der Erde, si può dire che sia l’intera composizione permeata da una profonda disillusione e dall’idea della vita che volge al termine.
Dopo il grande slancio positivista dell’Ottava Sinfonia, scritta in un periodo di euforia, che esaltava l’idea dello “Spirito creatore”, il peggioramento delle condizioni di salute ed una profonda crisi esistenziale condussero Mahler ad un ripiegamento su sé stesso ed anche il suo stile compositivo assunse un tono più raccolto e meditativo che è stato definito “stile del dissolvimento”.
Le tre ultime partiture del musicista boemo, ovvero le due già citate e l’Adagio dall’incompiuta Decima Sinfonia, sono caratterizzati da un’articolazione che si stacca dalle forme più tradizionali, assumendo una connotazione più libera, frammentaria, che dà vita ad una sorta di prosa musicale.
Dal contatto con la natura alla trasfigurazione dell’anima
Nel primo movimento il tema nasce da suoni sparpagliati, quasi effetti d’eco che provengono da corno, arpa, violoncello, che sembrano coagularsi e poi dissolversi. Spetta agli archi tentare di dare una forma ed una continuità alle idee espresse come una sorta di attaccamento alla terra ed alla natura di cui si vuole godere fino in fondo nonostante il presagio della morte.
Seguono due movimenti dai contorni apparentemente più nitidi: un Ländler, altra figura musicale caratteristica delle sinfonie mahleriane, che poco o nulla ha di spensierato nel suo tono grottesco ed ironico, come anche il Rondo-Burleske che ad una prima parte più squadrata e dinamica contrappone una seconda parte dai toni rarefatti, in cui, come in una sorta di malinconico ricordo, compare, enunciato dalle trombe, un tema che tornerà anche nel movimento successivo.
Il quarto movimento si può quindi interpretare come una trasfigurazione dell’anima attraverso una progressiva rarefazione della musica. Aperto dal quintetto degli archi, dopo un lungo sviluppo, si conclude con un pianissimo in cui protagonisti tornano ad essere i soli archi il cui suono si assottiglia fino quasi a scomparire in un finale che non sembra veramente chiudersi mai.
Un’interpretazione personale e travolgente
Gatti, direttore mai banale ma allo stesso tempo mai gratuito, ha dato della sinfonia un’interpretazione personalissima e travolgente, cesellando ogni minimo particolare e compiendo un lavoro straordinario di concertazione sia dal punto di vista dell’agogica che della ricerca timbrica.
Forte di una profonda conoscenza della partitura, diretta interamente a memoria, Gatti ha dato del primo movimento una lettura di grande coerenza, in cui la frammentarietà e l’apparente estemporaneità delle idee melodiche si articolavano intorno alla complessa struttura, mettendo in risalto le singole sezioni e gli innumerevoli interventi solistici -magnifici tra gli altri il primo violino ed il primo corno- in un gioco di colori ricco e variegato. Da antologia anche il secondo movimento di cui è emersa la disillusa ironia che si cela dietro l’apparente giocosità del ländler e del walzer, più prossimi ad una danza macabra che ai balli di una festa di paese.
Nel terzo movimento è emerso il contrasto tra la prima parte, più squadrata e marziale, rispetto alla seconda più malinconica e sognante che si è aperta su un quarto movimento di una bellezza struggente in cui tempi dilatati e un’agogica di grande plasticità sono stati alla base di una lettura intensa, commovente, che si è conclusa in un pianissimo quasi irreale che ha lasciato ammutolito il teatro per alcune decine di secondi prima di sciogliersi in un trionfale applauso rivolto ad un’orchestra in stato di grazia ed al Maestro che più voci danno come futuro Direttore Musicale della Scala a partire dal 2026.