In un tripudio di bandiere tricolori sparse per tutta Firenze, anche Slava Polunin ha inteso partecipare ai festeggiamenti del 150 esimo dell’Unità d’Italia. L’ha fatto con la sua arte mimica e clownesca nel saper “unire” signore anziane agghindate e fresche di parrucchiere, bambini eccitati, coppie di fidanzatini, uomini compassati in giacca e cravatta.
Giovani ragazze nel ruolo di maschere del teatro, con un fazzoletto legato intorno al collo, rigorosamente verde, bianco e rosso. Il bianco era presente in quantità industriali, tanti erano i coriandoli di carta che svolazzavano per tutta la platea gremita e festosa. Il verde si percepiva sulla scena con i buffi costumi di cinque strampalati personaggi dalle scarpe lunghe e dai cappelli a forma d’orecchio d’asino. Il rosso spiccava sul viso di Slava, con il suo nasone posticcio da clown, che tanto fa ridere grandi e piccini. Un sottofondo sonoro di sferragliare di treni, fischi di locomotive, ed ecco che appare sulla scena, lentamente a passi claudicanti, con mano una cordicella che più la tiri e più si allunga.
Un cordone ombelicale lungo quanto una vita vissuta, mai spezzata: quella che risponde al nome di Slava, geniale artista d’origini russe, cittadino francese, icona mondiale. Inesorabilmente triste e malinconico, immerso nel suo mondo fatato delle favole che si tramutano in sogni, fantasie divenute reali e offerte a chi è seduto comodamente nella sua poltroncina rossa. Slava è la quinta essenza del minimalismo scenico e creativo che sa disegnare nello spazio senza gravità una gestualità coreografica, insieme ai suoi stralunati compagni di viaggio, densa d’interrogativi esistenziali, seminando sull’impiantito del palcoscenico, fiocchi di neve che paiono vera e desiderosa di sciogliersi sotto i riflettori.
E’ il bianco candore della sua amata Russia, quella delle tundre innevate, ma se chiudi gli occhi, può immaginarti mondi ancor più remoti. Entra un letto rosso (le variazioni della tavolozza sono minime), una scopa a far da pennone, e un lenzuolo bianco a guisa di vela, per trasformarsi in una fragile zattera in rotta di collisione con un gigantesco transatlantico. E nel mare sguazza un clown con pinna da pescecane sulla schiena. E’ un teatro fatto di giochi innocenti, di semplici variazioni sul tema, con qualche spunto più tragico e quindi comico, come nella migliore tradizione della Commedia dell’Arte (cui Slava né è debitore), dove i clown si trasformano in angeli dalle ali nere, lugubre presagio per annunciare la “morte” che più simbolica di così non si può.
Slava entra trafitto da frecce di gomma, ed è costretto a soccombere nell’inutile tentativo di resistere al suo tragico destino: quello di far ridere con le proprie disgrazie. Sulle note finali del Bolero di Ravel, la platea si ricopre di una gigantesca ragnatela appiccicosa, che cattura tutti per colpa di un ragno che appare dal fondo. E’ il pretesto per far interagire il pubblico che non aspetta altro. E qui accade un fuori programma esilarante quanto imprevisto che coinvolge chi scrive, suo malgrado.
Un clown si cimenta in una spericolata arrampicata da un palco all’altro di proscenio e finisce dentro in uno di questi, dove una simpatica vecchietta dai capelli bianchi, è intenta a degustare un cartoccio di omelette alla marmellata. Scippato il gustoso dolce, brandisce i rotoli di latte e uova come tanti corpi contundenti, e uno di questi s’infila nella bocca, sempre di chi scrive, provando imbarazzo per essere stato dileggiato. Nel frattempo gli altri quattro compari di malefatte si scatenano in una sarabanda di dispetti, spruzzi d’acqua che partono da ombrelli che sembrano innaffiatoi, cappotti, borse e cappelli volano via come stracci. Il finale è un fascio di luce sparato sul pubblico: sta a indicare l’arrivo di una tempesta polare.
E Paolo Conte canta: “Via, via, vieni via di qui, niente più ti lega a questi luoghi, neanche questi fiori azzurri…” Restano ancora venti minuti di fila per ottenere un autografo a Slava che accarezza i bambini, stringe le mani dei genitori, e chi scrive, si ritrova sul suo taccuino il nome di Derek Scott.com. Non è la firma di Slava, è l’indirizzo di un’agenzia artistica canadese. Ci si sente amabilmente presi in giro. Per una volta che uno trascende dal suo ruolo di osservatore neutrale, solo per aver chiesto uno scarabocchio sulla carta, si ritrova catturato nella rete del clown.