Un incubo fantascientifico ben confezionato, questo Solaris. E, come avviene spesso nella buona fantascienza, anche qui il nemico da battere non è l’alieno, il diverso con le sue caratteristiche. Il nemico vero è il dubbio, l’incertezza, la paura dell’ignoto: quello che si nasconde vicino a te o addirittura dentro di te. Il tutto confezionato con un allestimento degno di un’opera lirica.
Tra gli appassionati di fantascienza la storia è nota. Solaris è un pianeta fuori dal sistema solare: non c'è terra, solo un unico immenso oceano. Gli uomini mandano una spedizione a studiarlo, ma ben presto sull'astronave appaiono strani esseri: sono entità create dal pianeta, per un scopo misterioso.
Sul palcoscenico la scenografia pensata da Simone Mannino non ci sta: al Teatro Gustavo Modena di Genova (dove abbiamo visto lo spettacolo) devono togliere metà delle poltrone e usare la platea. Il pubblico si accomoda soprattutto sui palchi laterali.
Il libro originario, uscito nel 1961, è di Stanislaw Lem; Andrej Tarkovskij nel 1972 ne ha tratto un film da quattro ore che all’epoca è stato visto da quasi tutti gli appassionati di fantascienza; nel 2002 il regista Steven Soderbergh ha fatto un remake con George Clooney; nel 2019 David Greig ha portato il romanzo a teatro.
Il protagonista diventa una donna
Greig ribalta il genere del protagonista: il dottor Kris Kelvin è una donna (Federica Rosellini), e quello con Rey (Giulia Mazzarino) è un amore saffico. Dal punto di vista della drammaturgia non cambia nulla. Serviva un forte rapporto sentimentale del protagonista con qualcuno che è morto, e questo c’è: come sappiamo i sentimenti non hanno genere. La tensione emotiva, lo struggimento, la nostalgia, il rimorso, il desiderio di ricominciare, che prova Kelvin, vengono interpretati in modo magistrale.
Ma obiettivamente non si capisce il motivo di questa innovazione: perché Greig cambia il testo di Lem? Per essere moderno, di rottura? E’ stata una mossa per ingraziarsi il mondo LGBT? Il rimorso di Kelvin-donna per avere preferito la carriera all’amore, è più forte di quello che avrebbe provato un Kelvin-uomo?
In teatro ci deve essere un motivo valido per qualsiasi dettaglio. La drammaturgia è un mosaico che viene composto pazientemente fino al quadro finale: se si mettono pezzi a casaccio salta tutto.
Dicono che Greig voleva sovvertire il clichè che vuole gli astronauti tutti maschi: opinabile, visto che non mancano eroi dello Spazio al femminile (Alien, Star Trek, e altri). A quasi tutto il pubblico genovese la novità non è piaciuta, e i commenti all'uscita erano indicativi.
Solaris è un meccanismo inesorabile
Detto questo, il Solaris messo in scena da Andrea De Rosa è come deve essere: un meccanismo inquietante e inesorabile, che scandaglia la complessità della condizione umana, in tutte le sue sfaccettature psicologiche, e mette a nudo i nodi irrisolti. La metafora (esplorazione del pianeta Solaris=comprensione della natura umana) viene portata alle sue estreme conseguenze: chi vuole salvarsi, scappa dal pianeta; chi vuole andare in fondo a sé stesso, capire, mettersi a nudo, rimane e continua a soffrire. E la morte è solo rimandata di un po’.
Solaris è vivo. E’ un pianeta bambino, che non conosce altro che sé stesso fino a quando non arrivano gli esseri umani. Solaris non sa nemmeno di pensare fino a che non intercetta i pensieri degli uomini: lo dimostrano le cose che dice la sua creatura Rey. Gli esseri umani gli servono da mezzo di contrasto. Solaris scandaglia le menti degli astronauti; ripesca ricordi sopiti, gli dà vita e poi spedisce i suoi emissari tra gli uomini.
Solaris deve soprattutto imparare a leggere i pensieri degli altri: infatti all’inizio legge male, sbaglia, e genera mostri. Gli essere umani si ritrovano ad avere a che fare con i loro stessi pensieri, deformati e ridotti a mostri. Spedire i visitatori sull’astronave in orbita serve a Solaris per comunicare con gli astronauti, per capire chi sono e se sono una minaccia da cui difendersi.
Gli astronauti si rendono conto di essere un virus, per il pianeta; e i visitatori potrebbero presto trasformarsi in arma di difesa, anticorpi. Il testo di Solaris è in bilico tra filosofia, psicologia, etica e psicanalisi. Federica Rosellini, Giulia Mazzarino, Sandra Toffolatti, Werner Waas e Umberto Orsini interpretano benissimo il senso di doloroso straniamento che c’è quando l’essere umano si ferma un attimo e si guarda dentro per davvero.
I mostri arrivano dal basso
La scenografia è curata nei dettagli. Una tv in bianco e nero trasmette spezzoni degli anni 60. Davanti alla tv c’è uno dei primi mostri arrivati, ormai mummificato. La porta dell’astronave è una botola che si apre dal basso; e dal basso emergono i visitatori, che Solaris ha creato rimestando nel subconscio degli astronauti: tutto quadra.
Umberto Orsini compare in video: è il dottor Gibarian, un terzo membro dell’equipaggio, ormai morto. Ma nel video-diario sembra ancora vivo, e sembra capire cose che sfuggono agli altri.
Molti i riferimenti nella scenografia, nelle luci, negli effetti che rimandano al 2001 di Kubrick. Ad un certo punto Gibarian sembra proprio il David Bowman vecchio e stanco, immerso in una luce bianca, di 2001: quasi uguale anche il vestito. Alla fine restano l’oceano in perenne movimento di Solaris, la psicologa-astronauta Kris Kelvin, e il mare dei suoi dubbi e dei suoi rimorsi.