Marta Cuscunà è lì nel buio, dietro impalcature tubolari fa muovere le dodici teste aimatroniche che per lei ha costruito Paola Villani e che costituiscono il segmento scenico dello spettacolo.
Dodici teste mozzate incorniciate da altrettanti scudi di legno, trofei non immobili come certe teste impagliate da stanza con caminetto, bensì animati e capaci di avere vita propria. La loro esistenza, d'altronde, è la cifra dell'intero spettacolo. Divise in due gruppi, queste teste parlano, litigano, sbrodolano stronzate, si aggirano tra i peggiori luoghi comuni, guardano cassette porno o paurose trovano una via di fuga nel bagno della scuola. Due gruppi, dunque, da una parte gli adulti infagottati nella loro saggezza benpensante, dall'altra cinque ragazzi dallo slang fatuo e ostinatamente ripetitivo.
Eppure, in qualche modo, sono proprio loro il motore della storia, ma non i protagonisti.
Delle diciotto ragazze di sedici anni che hanno deciso di rimanere incinte tutte insieme e che vogliono far crescere i loro figli in una comune tutta al femminile, di loro, delle vere protagoniste insomma, non ci sono teste mozzate. La loro presenza è una traccia visivo/uditiva, al centro del palcoscenico su un mega schermo da iphone leggiamo le loro chat scandite dai bip dei messaggi e dagli sfondi colorati o leopardati.
Le teste mozzate parlano, le ragazze scrivono. Scrivono anche agli ignari ragazzi del quintetto che scoprono così di essere diventati, tra un porno e un Terminator, padri di altrettanti figli.
Marta Cuscunà dirige i suoi dodici personaggi con il tocco di un burattinaio d'eccezione, d'altronde è sufficiente dare una veloce scorsa al suo curriculum per constatare quanto quest'arte le appartenga, il signor Joan Baixas con cui ha cominciato a collaborare dal 2006 ne è un esempio, e non c'è dubbio che l'impatto sulla platea sia incredibilmente efficace, riuscendo le teste a mescolare in sè tutte le metafore possibili e una dose di impressionante realismo.
Ma è il lavoro sulle voci che lascia davvero il segno. Dodici teste, dodici vocalità perfettamente studiate che invadono lo spazio. Sono le voci a dare il ritmo allo spettacolo, a scandire tic e frustrazioni, spacconate da strada e vigliaccherie istituzionali, è la voce del preside a contenere nella sua gutturalità la paura dello scandalo, l'infermiera della scuola invece con la sua disarmante chiarezza è perfetta nel trovare soluzioni impossibili, ma c'è poi la donna straniera che scivola sulle consonanti, il tono stridulo della moglie finto accondiscendente, la "erre moscia" di uno dei ragazzi cui fa da contrappunto il timbro aggressivo del bulletto di turno.
Ecco, Marta è lì nel buio, ma è come se fosse in proscenio, con la sua voce veste dodici personaggi, ma poi lascia che un silenzio straniante dia spazio alla chat sul display e alla sua grottesca ironia.
Sorry, Boys è il terzo movimento di una trilogia sulle resistenze femminili, sì perché la vicenda delle ragazze di Gloucester che decidono di portare a termine le loro gravidanze in una sorta di autonomo collettivismo è una vicenda di anarchia, un miracolo più che una storia, un patto che insegue il cambiamento.
"Queste ragazze stanno dicendo: il vostro sistema ci oppirme" , chioserà, quasi al termine dello spettacolo, una delle teste mozzate/adulte, la libera imprenditoria del sesso, come definiscono i cinque ragazzi la chance tutta femminile di fare soldi a palate con il porno, si è trasformata in messaggio rivoluzionario.
Un messaggio che resta a suo modo un enigma: dal 2008 a oggi cosa è stato di quelle ragazze?
E' la domanda che sembra affiorare sul volto del preside che, sotto la strisciata di un proiettore, rimane a guardare interlocutorio davanti a sé, mentre la protagonista abbandona il complicato sistema di leve con cui ha dato vita alle maschere, e dal buio, stavolta con la sua voce, mette la parola fine allo spettacolo.