L'attore Alberto Giusta, mettendo in scena Thom Pain del drammaturgo statunitense Will Eno, è contemporaneamente sopra le righe e sotto il tappeto. Si erge a campione dell'umanità, l'individuo disincantato che ha capito tutto sul senso della vita e te lo spiega, e allo stesso tempo si mostra per quello che è veramente: un uomo in balia del caso, degli eventi, della mediocrità e di sé stesso.
Soprattutto un uomo che non ha capito niente del mondo e della sua storia personale. Un uomo il cui vissuto è stato determinante nella costruzione del Thom Pain che vediamo adesso sul palcoscenico: ma se lo guardi bene è anche un vissuto labile, flebile, inafferrabile, evanescente, che sfugge da tutte le parti quando cerchi di raccontarlo.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Basato sul niente, mettetevi l'anima in pace
Il sottotitolo di Thom Pain è Basato sul niente, e questo la dice lunga sullo spettacolo e sul suo protagonista. E non è un caso neppure che il protagonista di cognome faccia pain: e cioè dolore, sofferenza. Una sofferenza esistenziale, sempre alla ricerca di un significato che forse non esiste e quindi è inutile cercarlo: e forse è meglio così, mettetevi l'anima in pace.
Giusta/Pain sale e scende dal palco, si mischia agli spettatori, dialoga. Ma in realtà è una finzione, non è un vero dialogo. Nel 90 per cento delle sue interazioni con il pubblico Thom Pain sembra ascoltare le risposte degli spettatori alle sue domande retoriche o domande reali, e comportarsi di conseguenza: in realtà non ascolta e non risponde.
Il suo monologo è un loop di frasi fatte, con o senza senso, di luoghi comuni, aneddoti personali, barzellette iniziate e mai finite, slanci iperbolici, divagazioni che si innestano su divagazioni, meditazioni profonde che si ribaltano all'improvviso in una boutade, in un guizzo, in una parolaccia.
Una scenografia da vuoto pneumatico
Sono discorsi e racconti spezzettati, dispersi e poi ricomposti a casaccio, in un momento qualsiasi, interrompendo il filo del discorso precedente. La costruzione del testo, senza capo né coda, senza un prima e un dopo, senza un inizio e una fine, è lo specchio di una realtà che non si può capire né afferrare: si può solo subire.
E Thom Pain, in questa scenografia da vuoto pneumatico, la subisce tutta e ci fa capire che la subiamo anche noi. La scena costruita dal regista Antonio Zavatteri disegna il vuoto interiore del protagonista, la sua solitudine esistenziale. Un abito nero con cravatta nera, un fondale nero, con una sedia e un tavolino neri; una luce ferma che piove dall'alto senza alcun effetto speciale. Una bottiglietta d'acqua che cade in continuazione e rotola, da fermare col piede. Emergono sprazzi di ricordi, scene d'infanzia paradossali, un amore finito senza un perchè e rimpianto ancora adesso.
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Thom Pain ha un dialogo con gli spettatori, ma la comunicazione è finta perchè non c'è niente da dire. Lui e gli spettatori non possono dialogare davvero perché ognuno è chiuso nella sua solitudine: e allora non resta che prendere atto del fatto che lo spettacolo e la vita sono basati sul niente, e riderci amaramente sopra.