TI REGALO LA MIA MORTE, VERONIKA

Le donne di Fassbinder nel teatro di Latella

Le donne di Fassbinder nel teatro di Latella

Se si osservano i cartelloni dei maggiori teatri italiani, sembra che portare il cinema a teatro, oggi sia una necessità. A guardare i risultati, si tratta più spesso di un modo per intercettare pubblico che di un reale bisogno espressivo. Non è certo il caso di Antonio Latella, che al Teatro Bellini di Napoli, porta in scena Ti regalo la mia morte Veronica (fino a domenica 22 novembre), tratto dal film Veronika Voss di Rainer Werner Fassbinder.

Quando il cinema entrò per la prima volta a teatro, fu realmente per necessità. La scena avrebbe potuto soccombere di fronte alla nascita del video e alle sue nuove possibilità narrative. Si era allora ad un bivio: il teatro perdeva terreno, il cinema avanzava imperioso. Intanto sul palco, c'era posto per un solo protagonista: il realismo. La lezione del realismo arrivava dalla Francia e dalla Russia e, detto fatto, la impararono i tedeschi: nacque il teatro politico di Piscator e Brecht. La scena teatrale fu fatta salva da loro.

Allora a teatro si raccontava la guerra: lunghi anni in poche immagini. La voce della collettività diventava un'unica voce in campo, quella del regista, che forgiava l'immaginario collettivo. Oggi che la guerra è finita ma preme da lontano contro le nostre coscienze, le possibilità epiche del teatro sono ancora necessarie per scomporre il racconto della vita, in un modo in cui nessun frammento cinematografico può fare. Veronika Voss, attrice eroinomane, alla ribalta negli anni del Nazismo, forse amante di Goebbels, rinchiusa in una clinica da una neurologa e un'infermiera senza scrupoli, che non esitarono a ridurne l'umanità in miseria con la morfina, appare sola in scena. Quando si apre il sipario, la luce di sala è accesa. L'immagine è brechtiana: la coscienza dello spettatore deve restare vigile.

Magrissima e avvolta in un cappotto rosso, Monica Piseddu interprete di Veronika Voss è in piedi nella platea di un cinema, a destra una macchina da presa. Si rivolge al pubblico seduto di fronte a lei, Veronika, e chiede aiuto: “Aiutatemi a regalarvi la mia morte”, grida. Annuncia didascalicamente il tema dello spettacolo. Poi impreca contro il pubblico stesso: “scommetto che non avete letto nemmeno il programma di sala”. La finzione è esibita. Il racconto scenico si fa metateatrale. Le luci si abbassano e si entra nella storia, ora Veronica parla ai mostri della sua coscienza: il successo, l'amore, la droga, che sulla scena prendono le sembianze di sei gorilla albini. Ballano la musica techno le scimmie, stati primigeni della nostra coscienza. Primati e primitivi. Veronika, invece, prende le sembianze di Rainer Werner Fassbinder, morto del suo stesso male, la dipendenza: dal successo, dall'amore, dalla droga.

A questo punto la coscienza vigile arretra: la posizione di chi siede in poltrona al buio favorisce quest'arretramento, studi psicoanalitici lo dimostrano. Veronika siede in platea e guarda il film della sua vita come il pubblico che le sta di fronte: i volti sullo sfondo si confondono grazie ad un gioco d'ombre orchestrato da Massimo Arbarello, Sebastiano Di Bella, Fabio Bellitti. Disegni ambigui come le macchie di Rorschach si mescolano sullo schermo fino a diventare alternativamente il viso dell'attrice e quello del regista. Qui è ancora il realismo a parlare: Piscator, in un suo celebre allestimento, proiettò sul finale proprio il suo profilo gigante. E sembrava dire allora che il regista è l'unico ad aver voce in capitolo. C'è una battuta nel testo di Latella: “Cambiano i ruoli ma la voce è sempre la stessa. È e sarà sempre quella del regista”. La voce di Veronika, dunque, è quella di Antonio.

Latella fa cominciare i flashback della vita della Voss dalla radiocronaca di una corsa di cavalli del giornalista sportivo Robert Khorn; uno che di punto in bianco intende passare dallo sport allo spettacolo, e la sua vita allora incrocia quella dell'affascinante Voss. Hanno una relazione. Khorn parla al microfono dalla platea del teatro, poi di colpo sale sul palco, interagisce con i personaggi-scimmie, che spogliatisi dei manti bianchi diventano persone, soprattutto donne, evocanti le eroine del cinema di Fassbinder. Khorn invoca il realismo cinematografico. Il gioco dei segni è questo e si dipana fino alla fine in un crescendo che vede Veronika vivere la sua tragedia nell'interpretazione distaccata della Piseddu, in un gioco brechtiano col personaggio. I segni in quel distacco si caricano di senso e diventano tutt'uno con la tragedia di Fassbinder, come in un rimpallo continuo tra le esistenze e l'arte. La tragedia dell'eroina e quella del regista assumono così toni universali. Seduti nelle due platee speculari, quella cinematografica sul palco e quella reale del teatro, nel montaggio dei segni, le vediamo scorrere davanti ai nostri occhi proprio come un film. Il teatro è un gioco meraviglioso, dove tutto è possibile sembra urlare questo spettacolo. Prima e oltre il cinema, perché a teatro tutto è cominciato ed è là che tutto sembra ritornare.

Il finale dello spettacolo è il corollario di questo tourbillon: le donne protagoniste del cinema di Fassbinder, Martha, Margot, Maria, Emma, come in un film in costume, si ritrovano intorno ad un albero di ciliegio, calato dall'alto: qualcuno nota che “sembra un po' Cechov”. Ma si può andare oltre: il ciliegio è simbolo del realismo e forse ne è quasi matrice espressiva da quel 1876, quando alla Comédie Française andò in scena L'ami Fritz di Erckmann-Chatrian, che esibiva, come racconta Zola, un ciliegio vero carico di ciliegie vere, così realistico da sembrare piantato in scena. Le radici di quella pianta sicuramente germogliano ancora nel teatro di Latella.

Visto il 18-11-2015
al Bellini di Napoli (NA)