Approda a Napoli, per l’unica tappa in Italia al teatro Bellini, lo spettacolo di danza contemporanea Traces, ultima creazione del visionario coreografo belga Wim Vandekeybus.
Selezionato come una delle migliori performance del 2019, dopo la première mondiale in dicembre a Bucarest, approda per l’unica tappa in Italia al teatro Bellini di Napoli lo spettacolo di danza contemporanea Traces, ultima creazione del visionario coreografo belga Wim Vandekeybus.
Il titolo, Traces, rimanda alle tracce, ai segni che lasciamo lungo la strada e che ci conducono in un altrove che non è necessariamente luogo fisico bensì luogo interiore, personale o universale. Nella sua ultima creazione Wim Vandekeybus volge lo sguardo alle tracce che hanno segnato il suo percorso di ricerca artistico e personale, caratterizzato da un ritorno all’istinto, all’impulsività e all’intensità delle emozioni primordiali. La sua è un’indagine sulla natura umana e sulla dis-umanità, sul confine più o meno labile che separa l’uomo dalla natura e dunque da se stesso.
Romania: luogo simbolico di ispirazione
La performance, presentata dalla compagnia internazionale Ultima Vez, rientra nel calendario di eventi del Festival Europalia, che vede da ottobre 2019 a febbraio 2020, la Romania come paese ospite. Ed è proprio la Romania, luogo simbolico e fonte di ispirazione, che ha segnato l’immaginario e la fantasia del coreografo: “E’ stata la natura selvaggia della Romania ad affascinarmi. La catena montuosa dei Carpazi è considerata l’ultima zona vergine del nostro continente con una scarsissima popolazione, ed è la casa di più della metà degli orsi bruni di tutta Europa, di linci e lupi. Questo ha davvero stimolato la mia immaginazione” (da un’intervista a W. Vandekeybus).
Di questa terra il coreografo porta sulla scena la natura e la cultura, il suo animo noir, foreste e strade, baracche e rottami, tradizioni e spirito gitano, e lo fa con uno sguardo attento agli equilibri e ai conflitti, attraverso l’unione di danza e musica, dove energia e istinto sono le parole chiave.
Il corpo oltre il confine
La performance è un viaggio attraverso gli elementi della natura che il corpo umano ha dimenticato, è un atto di denuncia e al contempo un invito ad abitare il corpo, una dimensione che va oltre il controllo, che implica una disponibilità al sentire, una predisposizione a valicare quel confine che spesso diventa limite e che crea distanza da sé e dall’altro. Sulla scena i 12 ballerini, crogiolo di culture e nazionalità diverse, riescono nel difficile intento di rendere l’energia materia e darle forma attraverso il corpo, che diviene così veicolo di infinite possibilità, segnando il passaggio dal piano individuale al piano collettivo, per farsi esso stesso corpo animale, danzante, primitivo e universale.
La danza, nella visione del coreografo belga, rimanda al concetto di adattamento inteso quale modo di abitare lo spazio con la propria presenza non invasiva, accettando il proprio essere intimamente bestiale e perdutamente condizionato da tutto ciò che è alter. Sulla scena l’energia è fortissima, il sentire autentico, i corpi sono poli che si attraggono e respingono in un gioco di leve ed equilibri che rimanda, a tratti, alle più attuali tecniche e ai principi della contact improvisation.
Evocazione delle tradizioni e spirito contemporaneo
La performance riprende come un’eco le tradizioni del popolo romeno. La coreografia, come afferma lo stesso Vandekeyus nelle note di regia, risente delle testimonianze in bianco e nero del fotografo ceco Josef Kouldelka sui viaggi dei gitani in Romania, ed è accompagnata da musiche ispirate alla tradizione originale romena ma composte da musicisti di New York come Marc Ribot o Trixes Whitley, che ne hanno tuttavia preservato il ritmo e le pulsazioni originarie.
Sul confine tra innovazione e tradizione, provocazione e ritualità, nello spettacolo ritroviamo anche la presenza di un’altra usanza romena: “In Romania c’è quest’usanza di Capodanno, di indossare la pelle dell’orso e ballare. L’orso simboleggia il rinnovamento, il risveglio dopo il letargo, la voglia di rinnovarsi… Ho pensato di capovolgere i ruoli e presentare l’orso nei panni dell’uomo nella scena finale, ho usato questo concetto astratto per cercare di tirare fuori dall’umano l’animale che lo abita”.