Lirica
TURANDOT

Inizia con uno sciopero e finisce in crescendo, la “Turandot” della Fenice a Venezia

Turandot
Turandot © Michele Crosera

Persa la 'prima' di fine agosto per uno sciopero delle maestranze che tante polemiche ha suscitato (cancellando fra l'altro la diretta radio su Rai Tre), recuperiamo l'ultima delle altre recite della Turandot programmata per le celebrazioni pucciniane dal Teatro La Fenice. Tutte affollate all'inverosimile, con tanti turisti di passaggio a Venezia. Puccini è pur sempre un gran richiamo...

L'allestimento è quello a cura di Cecilia Ligorio già proposto nel maggio 2019. Con qualche aggiustamento a smussare qualche precedente eccentricità, come le ancelle che ramazzano il palazzo, o un'aggressiva (?!?) Liù che canta «Tu che di gel sei cinta» minacciando Turandot con un pugnale. Ma rimane uno spettacolo con poche luci e molte ombre.

Una Turandot cupa e plumbea

E' una Turandot volutamente austera e plumbea, rifuggente dal facile esotismo, e schiva pure di ogni suggestione fiabesca. Così tuttavia resta povera di afflato poetico, e pure cervellotica in certi frangenti: perché, ad esempio, tutta quella distribuzione di lame al popolo di Pechino? 

Questa della Ligorio è una regia con tante idee messe in campo, ma non tutte intellegibili, e non tutte sviluppate a fondo. Molto attenta alle parti secondarie; meno verso i tre protagonisti, figure tendenzialmente statiche.  Le scelte di costumi, un po' sconcertanti: la folla di Pechino, per esempio, è abbigliata da Simone Valsecchi con grigie uniformi, a suggerire forse un informe magma umano.

Un mandarino in trench coat

E poi. Il Mandarino è in castigato abito da manager, con tanto di valigetta in pelle. Ping, Pong e Pang di contrasto vestiti in squillanti completi rossi e stivaloni neri – roba da caccia alla volpe - accompagnati qua e là da piccole repliche. In voluto contrasto, restano solo i protagonisti ad indossare costumi orientaleggianti, e le guardie di palazzo in iperboliche corazze stile Mad Max.

Assolve con buona efficacia il suo compito, ad ogni modo, il taglio scenografico di Alessia Colosso: una cornice dal sapore liberty, appena accennata, circonda uno spazio minimalistico e quasi vuoto, algido, dai colori cupi. Una passerella sospesa  per l'apparizione di Turandot; tante lampadine elettriche a suggerire un cielo stellato; sopra, una luna che pare una sciabola; sullo sfondo, alla fine, l'apparire di un'aurora fiammeggiante.

Seguendo la regia, va la musica

Le scelte registiche sembrano riflettersi anche su quelle musicali del direttore Francesco Ivan Ciampa. Con lui nel golfo mistico poche soffuse nuances pittoriche, niente suoni estenuati; bensì un'eruzione di focosa energia, enfasi drammatica a tutto spiano, con volumi e sonorità lussureggianti che sfociano in impennate orchestrali financo esplosive, specie nei fiati. 

E' una visione che senz'altro esalta la modernità di scrittura e talune asprezze espressionistiche della partitura pucciniana. Può piacere o no – noi preferiamo letture meno tetragone - ma in scena funziona. E comunque l'orchestra veneziana risponde bene alle sue sollecitazioni.

Una Turandot tellurica ed esplosiva

Anche Saioa Hernández si accoda a questa visione complessiva. Non ha problemi con l'impervia, apocalittica tessitura di Turandot, canta senza perdere un colpo e senza mai farsi sommergere dall'orchestra. E senza mai giungere al limitar dell'urlo, si badi! Voce imponente, granitica, mai prossima allo sforzo; e fraseggio grintoso, persino sferzante; un po' come la Nilsson o la Dimitrova d'un tempo, per chi se le ricorda. 

Cotanta energia finisce per mettere 'sotto', come s'usa dire, il Calaf di Roberto Aronica. Un Calaf energico, ma non travolgente; portato avanti con buona professionalità, certo, ma senza le dovute finezze psicologiche e con mezzi vocali che in tal brusca, ardua ed eroicizzante parte mostrano qualche piccolo sbandamento.  Difficile dire se l'inesorabile, ed abituale applauso per «Nessun dorma» non sia scattato stavolta per questo, o per la freddezza d'un pubblico in gran parte ignaro di cose liriche.

Liù, dove sei?

Al di là di una voce dalle molte chances - morbida, rotonda, dal timbro seducente - non convince del tutto la Liù di Selene Zanetti. Per un motivo, fondamentalmente: per cantare, canta bene, sebbene quanto a sfumature si potrebbe fare di più; il fatto è che non la vediamo rendere a tutto tondo questo sfumato e toccante personaggio.

Timur è Michele Pertusi: come dire, uno dei migliori – diciamo forse il migliore – dei bassi dei tempi odierni. Fraseggiatore inarrivabile, interprete grandissimo, pure di extra lusso per un ruolo non proprio di spicco, solitamente delegato a interpreti di saldo mestiere e basta.

Nulla da eccepire sul trio di dignitari, disinvolto in scena e vocalmente adeguato: Simone Alberghini è Ping, Paolo Antognetti Pong, Valentino Buzza Pang. L'imperatore Altoum trova efficace risalto con Marcello Nardis, il Mandarino è ben reso da Armando Gabba.
 

Visto il 18-09-2024
al La Fenice di Venezia (VE)