Dopo i rinvii dovuti alle chiusure per la pandemia Covid 19, è finalmente arrivata l’attesa Turandot con la regìa di Ai Weywey, artista concettuale cinese dissidente tollerato in patria, ed osannato nel resto del mondo.
Alle suggestioni degli eventi dei due anni appena trascorsi, si sono sommate le emozioni e le paure della guerra che la Russia ha portato in Ucraina in queste ultime settimane.
Per uno scherzo del destino sul podio dell’Orchestra del Teatro dell’Opera a dirigere Turandot è stata chiamata Oksana Lyniv, la direttrice ucraina che è alla guida del Teatro Comunale di Bologna, prima donna in Italia a dirigere una Fondazione lirica, dopo essere stata la prima donna della storia sul podio al Festival di Bayreuth.
Ai Weywey aveva incontrato Turandot 35 anni fa al Metropolitan nella famosa edizione di Zeffirelli, dove era impegnato come figurante, ma finora non aveva mai avuto altri rapporti con il mondo dell’opera. Per questa occasione si è occupato della regìa, dei costumi, delle scene e dei video.
Due spettacoli in simultanea
Proprio i video, proiettati a tutto schermo sul fondo della scena sono i veri protagonisti dello spettacolo, l’opera si percepisce come separata dal resto, l’impressione è quella di due spettacoli che si svolgono simultaneamente. Le immagini proiettate descrivono una modernità apocalittica, grattaceli alveari, nodi autostradali intricati, città disumane come aveva immaginato Fritz Lang cento anni fa con Metropolis. Folle accalcate, repressioni feroci della polizia, migranti su barconi, violenza, pena, sofferenze.
L’opera vera e propria si svolge un po’ estranea alle immagini proiettate, l’artista non è un esperto regista, perciò non rischia. I personaggi sono piuttosto statici, la musica e il canto hanno il compito di descrivere le azioni. E’ stata scelta la versione originale, quella con il finale sospeso. La narrazione si conclude con la morte di Liù, la trasformazione di Turandot si può solo immaginare.
Enfasi eroica per la direttrice ucraina Oskana Lyniv
La parte musicale funziona bene, il Coro diretto da Roberto Gabbiani fornisce allo spettacolo una prova splendida e ne è il vero protagonista. La bacchetta di Oskana Lyniv esalta la dimensione eroica della partitura, il suono dell’orchestra esplode prepotente, talvolta mettendo in ombra le voci che stentano a emergere.
La parte dell’algida principessa è stata efficacemente interpretata dalla soprano polacca Ewa Vesin, mentre Angelo Villari è un convincente Calaf, sobrio ed efficace evita con eleganza ogni sbavatura in Nessun dorma. Adriana Ferfecka nella parte di Liù fatica talvolta a farsi sentire oscurata dall’orchestra, ma si riscatta nella bellissima interpretazione dell’aria finale prima del suicidio.
I costumi curati dallo stesso Ai Weywey sono belli e fantasiosi, a lunghe tuniche colorate fanno da contraltare copricapi bizzarri, mentre Calaf è oppresso da una inspiegabile grossa rana avvinghiata sulle spalle di cui si libera quando accetta la sfida dei tre enigmi.
Non è la Turandot della tradizione, la parte visuale prevale su Puccini, ma lo spettacolo funziona e il pubblico romano ha applaudito a lungo soprattutto quando Oskana Lyniv con la bandiera ucraina legata alla vita è salita sul palcoscenico per i ringraziamenti insieme al cast.