Qualcosa c'è, qualcosa no, in questa Turandot pucciniana che dopo aver aperto la stagione lirica 2019/20 del Teatro Verdi di Trieste, ora viene a chiudere quella 2022/23. Gli interpreti principali rimangono gli stessi, cioè Kristina Kolar e Amadi Lagha; pure la scenografia un po' banale di Paolo Vitale ritorna in campo – sei strutture metalliche man mano ricombinate, con alti pannelli ad incorniciarle.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Cambiano però i costumi: non più quelli sbarluccicanti del Teatro di Odessa, bensì quelli ridisegnati per l'occasione da Danilo Coppola. Neri, essenziali e severi per Calaf, Liù, Timur ed il popolo di Pechino; chiari, astratti e un po' bizzarri per i personaggi di corte. Una divisione volutamente netta, consona alla concentrata e dinamica visione registica di Davide Garattini Raimondi – la precedente collaborazione con Katia Ricciarelli va in soffitta – che costruisce un racconto scabro e incalzante, fertile di vivide sensazioni. Salvo concedere troppo spazio alle enfatiche retrostanti videoproiezioni. Che nulla aggiungono al racconto, piuttosto disturbano lo spettatore.
Alla fine, grande emozione
A parte ciò, lo spettacolo procede saldo, logico e serrato sino alla conclusione, là dove la regia raggiunge un apice di coinvolgente emotività. Con il sipario che cala silenzioso sul corpo esanime di Liù, evitandoci il laborioso arrancare del finale arrangiato da Franco Alfano. Un compimento di apprezzabile mestiere, per carità, ciononostante prolisso; concludendo al ribasso, con quel fatuo flirtare sul corpo ancor caldo della giovane schiava, un precedente arco narrativo di estrema tensione, oltre che di finissima poesia. Non a caso, già il povero Puccini s'era incartato proprio a questo punto; solo la morte repentina interruppe la ricerca d'una congrua risoluzione alla partitura.
Due ritorni, un esordio
Torna la Turandot di Kristina Kolar: la grande personalità c'è, congiunta ad una ragguardevole solidità, ampiezza, luminosità e piena risonanza della voce, che - dopo un inizio un po' incerto, ma l'esordio in scena del personaggio, si sa, è difficillimo – le fa portare a casa un buon risultato.
Torna pure Amadi Lagha, infondendo al suo franco e virile Calaf ammirevole sicurezza d'emissione, facile salita ad acuti svettanti e prodighi, un bel timbro vagamente brunito. Il personaggio è tetragono, si sa, tutto caparbietà e testosterone; per questo - a voler pignolare - non guasterebbe una maggiore ricerca di chiaroscuri espressivi e un fraseggio un po' più morbido.
Il soprano russo Ilona Revolskaja debutta in Italia con una Liù di scarso carattere oltre che dalla dizione inadeguata. La voce di per sé è insolita, tendente allo scuro, ma poco espressiva; e purtroppo è afflitta da un importuno vibrato, e nel registro medio/inferiore risulta poco accattivante. Così il suo commovente personaggio, insomma, esce a mozziconi.
Una direzione scintillante
Debolucci il Timur di Marco Spotti, dalla linea vocale incerta, e l'Altoum di Gianluca Sorrentino; in compenso, abbiamo un eccezionale trio di maschere, musicalissime ed affiatate, con al vertice il superlativo Nicolò Ceriani (Ping), e completato dai bravi Saverio Pugliese (Pang) ed Enrico Iviglia (Pong). Irreprensibile condotta del Coro, come pure quella dei i Piccoli Cantori della Città di Trieste.
Per finire, troviamo una vivida, positiva intesa fra la bacchetta di Jordi Bernàcer e la compagine strumentale del Verdi, con l'effetto di consegnarci una concertazione di spiccata teatralità, oltre che cromaticamente brillante. E portata avanti con tempi spediti, sonorità luminescenti e cangianti, pieno respiro e buon andamento narrativo.
Forse si potrebbe rimproverare l'occasionale adozione di certe dinamiche enfatiche e nervose, ma a favore del maestro iberico depone la poca indulgenza al cedimenti estetizzanti. Nota di colore: dalla buca dell'orchestra, in questa nostra recita domenicale, gli sono stati indirizzati ripetutamente sonori apprezzamenti.