Dopo essere andata in scena nelle settimane passate al Municipale di Piacenza, al Galli di Rimini ed al Comunale di Modena, la Turandot pucciniana ideata in toto da Giuseppe Frigeni (regia, coreografia, scene e luci recano tutte la sua firma) nel lontano 2003 proprio per quest'ultima sala, termina infine la sua corsa al Teatro Alighieri di Ravenna.
Parliamo d'uno spettacolo raffinato e dai molti pregi, che in vent'anni ha percorso su e giù mezz'Italia, e che è stato rimesso ora in scena con la solerte cura di Marina Frigeni.
Frigeni e Wilson, sodalizio dai bei frutti
In esso, il sodalizio di Frigeni con il carismatico Bob Wilson, di cui è stato a lungo assistente, si rivela chiaramente in ogni sua componente: procedendo per successive sottrazioni tutto è ben calibrato, tutto vive di rarefazione narrativa, tutto procede all'insegna del massimo rigore, ma senza sacrificare le emozioni.
Sul palcoscenico, alla Pechino sinuosamente liberty di Adami e Simoni Frigeni sostituisce una spazialità scabra, portata ai limiti dell'astrazione; i costumi da lui disegnati sono d'elegante sobrietà; ed una recitazione essenziale eppure intensissima, con movimenti quasi impercettibili, sembrano rinviare ad un icastico Oriente, con debiti verso il gamelan giavanese ed il kabuki giapponese.
Direzione accorta e spontanea musicalità
Di casa al Teatro Wielki di Poznań, di cui è l'attuale direttore musicale, Marco Guidarini è tornato in patria a presiedere l'Orchestra dell'Emilia-Romagna A. Toscanini in ognuna di queste recite primaverili. Dirige con indubitabile bravura, accompagnata da spontanea musicalità, scegliendo la via dell'eleganza formale più che quella della passione arroventata.
Non rinuncia tuttavia per questo alla varietà di colori, alla ricchezza timbrica, alla forte spinta propulsiva indispensabile alla partitura più innovativa di Puccini, Insomma, ecco una direzione che ci conquista per il suo savio equilibrio.
Quanto alla fusione estemporanea del Coro Lirico Città di Modena con quello del Municipale di Piacenza, sotto l'egida di Corrado Casati, porta a risultati indubitabilmente egregi. Così come cristallino è l'apporto delle Voci Bianche modenesi preparate da Paolo Gattolin.
Una Liù assolutamente perfetta
Vera protagonista della serata ravennate è Vittoria Yeo. Una Liù melanconica, dolcissima, verosimile e commovente nella sua rinunciataria sofferenza; dalla condotta vocale abilmente sfumata, scolpita a tutto tondo in ogni parola. Ulteriore conferma delle distintive qualità constatate in precedenti sue interpretazioni.
Qualche perplessità invece desta in noi la Turandot del soprano francese France Dariz, spigolosa e poco 'lirica', e sin troppo frigida. Peccato, perché il materiale vocale non è certo da buttare, anzi; ma è proprio il ruolo della 'gelida' principessa che non ci pare ben messo a fuoco.
Calaf, principe “de coccio”
Dal canto suo, Mikheil Sheshaberidze ci porge un Calaf dallo squillo generoso, dove ampiezza e facilità d'emissione – bello il registro centrale, gli acuti facili e svettanti - si fondono positivamente; benché a tratti, a dire il vero, il tenore georgiano tenda a risolverne la figura con impeto stentoreo, un po' magniloquente. Colpa in parte del personaggio, dal carattere di per sé un po' arido e tetragono: certo che se' de coccio, come direbbero a Roma.
Un bel trio di cerimonieri
L'arguto trio dei cerimonieri di corte trova interpreti spontanei, spigliati e dinamici in Fabio Previati, Saverio Pugliese e Matteo Mezzaro, che sono rispettivamente Ping, Pang e Pong. Impeccabile nella resa vocale e toccante nell'espressività dolente il Timur di Giacomo Prestia. Ottimo l'Imperatore di Raffaele Fe, così come il mandarino di Benjamin Cho.
In una sala felicemente occupata in ogni ordine di posti, scroscianti applausi per tutti.