Non solo Parma e non solo Regio per il Festival Verdi 2024. Come l'anno scorso, a Fidenza è andata un'opera in forma di concerto – stavolta l'Attila diretto da Riccardo Frizza – ed a Busseto un'opera fatta e finita, Un ballo in maschera.
Certo, tenuto debito conto delle dimensioni mignon di entrambi i teatri e specie dei loro golfi mistici, mettendo in gioco compagini orchestrali a ranghi ridotti. Ma pur sempre buone, come constatato con il Falstaff bussetano dell'anno scorso, atte a riempire la sala senza soffocare le voci.
Un'orchestra di soli giovani
Sono diciotto infatti gli archi – mai fiati sono a due - che per Un ballo in maschera allinea l'Orchestra Giovanile Italiana messa a disposizione di Fabio Biondi. Violinista e direttore specialista del genere barocco, il maestro palermitano in tempi recenti ha ampliato il suo interesse all'opera del primo '800, spingendosi ora ad un lavoro cronologicamente centrale del repertorio verdiano.
Approccio tutto sommato prudente, sorvegliato, con raffinata ricerca dei timbri e dosaggio delle sonorità; un indirizzo abbastanza ben supportato dai giovani strumentisti della Scuola di Fiesole. Quello che difetta, però, è un po' la percezione teatrale, un forte portato drammatico, avendo Biondi impostato una concertazione equilibrata sì, ma di limitato slancio emotivo e poco respiro narrativo.
Uno spazio che sembra più grande di quello che è
Sfruttando al meglio il minuscolo palcoscenico di Busseto, lo spettacolo di Daniele Menghini qualcosa deve al Gustavo III che inaugurò il Festival Verdi 2021, nato da un progetto di Graham Vick portato a compimento da Jacopo Spirei, del quale Menghini era assistente.
Giusto nella scena d'apertura, dove un folla di figure ambigue, tra ammiccamenti gay e pose queer, accompagna l'entrata in scena di un Riccardo ebbro e dalle ambigue inclinazioni sessuali. Forzatura che, a dire il vero, di per sé farebbe un bell'effetto ma ci parebbe fuori luogo. Poi però la regia di Menghini prende strade più originali e più personali, procede snella e porta a casa un risultato raffinato anche nei tantissimi dettagli. Oltre che emotivamente assai coinvolgente. Avvalendosi, in questo, anche di piccole e grandi, ma sempre intelligenti invenzioni.
In bilico fra reminiscenze barocche ed atmosfere horror
Un solo esempio: Riccardo nel duetto con Amelia – il vero cuore dell'opera – ricopre il suo volto e quello dell'amata con candida biacca, segno del desiderio di essere altro ed altrove. Così allorché Renato – un gentleman già all'inizio disgustato dei bagordi della corte – va a sfiorare sconcertato il viso della moglie, guardando le sue dita imbiancate ha ben ragione di dolersi che «Ei m'ha la donna contaminato».
Da parte loro gli altri elementi in campo, cioè la scena pressoché unica di Davide Signorini – una base soggetta man mano a piccole variazioni, con tanti neri cherubini simili a pipistrelli in volo - i costumi di Nika Campisi, numericamente a metà fra passato e presente, le luci spioventi e tetre di Gianni Bertoli concorrono ad evocare uno spazio arcano, sovrannaturale, tenebroso - i teschi aumentano di quantità sino a ricoprire l'intero trono - in cui tutti i personaggi figure si muovono nervosi ed inquieti.
Tutte (o quasi) voci in evoluzione
In scena troviamo una scelta di voci in evoluzione. Meno quella di Giovanni Sala: tenore giovane sì, ma già da tempo in attività. Nella nostra recita, il ruolo di Riccardo viene invece sostenuto da Davide Tuscano, che peraltro ha tutti i numeri - voce bella, corposa, dal timbro attraente, sostenuta da buon fraseggio - per lanciarsi in una carriera prodiga di soddisfazioni. Premessa valida anche per Lodovico Filippo Ravizza, giovane baritono di salda attitudine recitativa, che al suo Renato conferisce una linea di canto espressiva e spontanea, bella pienezza di volume ed una ammirevole morbidezza di timbro. Verdi per lui non è più un obiettivo, ma ormai un traguardo raggiunto.
Un'Amelia da mettere a fuoco
Facendo un bel salto in avanti - dato che solo due anni fa la sentimmo quale Giannetta ne L'elisir d'amore a Cortina – Caterina Marchesini affronta a Busseto con evidente impegno l'impervia parte sopranile di Amelia, ma è un ruolo cui non basta il coraggio, e che al momento appare superiore alle sue forze. Più per ridotto temperamento che per risorse vocali, che in fondo ci sono, dal momento che la voce ha più punti d'interesse. Tanto che giunta nell'orrido campo sembra in effetti aver bisogno d'aiuto, onde risollevare le proprie sorti; e nel già concitato duetto con il fedifrago Riccardo la sua diventa una presenza persino timida.
L'Accademia Verdiana, fucina di talenti
Sono da poco uscite dalle aule dell'Accademia verdiana la coreana Danbi Lee e la nostra Licia Piermatteo. La prima supera agevolmente il periglioso scoglio della cupa figura di Ulrica, muovendosi agevolmente nella tessitura mezzosopranile con dizione chiara, solido fraseggiare e colonna di fiato senz'altro ragguardevole.
La seconda infonde maliziosa grazia, brillantezza recitativa e voce dal colore accattivante nel suo Oscar – una sorta di segretaria indaffaratissima – permettendosi anche delle luminose, piacevoli colorature in «Saper vorreste». Abilmente resi, persino nel differente carattere, i due congiurati Samuel e Tom da parte di Agostino Subacchi e Lorenzo Barbieri, costretti per poco spazio a far in scena da unici, funesti congiurati; Giuseppe Todisco si fa apprezzare con il suo svettante Silvano; Francesco Congiu interpreta bene lo stizzoso giudice ed il servo di Amelia.
Si presenta con pochi ma scelti componenti – necessità fatta virtù - il Coro del Regio diretto da Martino Faggiani, che come al solito si distingue per la sua lodevole qualità. Nel succedersi delle recite nel ruolo di Amelia si è esibita anche Ilaria Alida Quilico, in quello di Renato il coreano Kang Hae.