Cosa rimane della vicenda politica e umana di Aldo Moro a quarant'anni dal suo tragico epilogo? Che ne sanno i giovani di oggi? Come raccontare loro la peculiarità di un progetto politico ispirato dagli ideali di fedeltà alla Repubblica e avviluppato nelle certezze e nei dubbi di una profonda fede cristiana? Ci provano Sandro Cappelletto e Daniele Carnini che, nel solco dell’arte per l’impegno civile, hanno scritto Un’infinita primavera attendo, un’opera lirica in un atto che narra non già i cinquantacinque giorni del dramma ma le vicende e i personaggi che lo precedono, isolando progressivamente la vittima predestinata.
I personaggi non hanno nome, sono riconoscibili solo per il loro ruolo, una Segretaria che collega il Presidente al mondo circostante, uno Studente che vuole apprendere l’arte della politica, un Politico italiano, un Cardinale, alcuni Giornalisti, un Intellettuale, un Senatore americano. L’inizio è il film di un viaggio, da Via Fani all’Università in soggettiva, pellicola sgranata con un sapore di vecchio, città ostile, fino a una ragazza sorridente che, anche senza sonoro, ci dice che il nome Aldo Moro, a cui è dedicato il piazzale dove si trova, non le dice niente. La scena è nuda, pannelli mobili che fanno da sfondo a immagini proiettate apparentemente casuali, il colore dominante è democristiano: grigio con sprazzi di luce e astratte geometrie variabili.
I personaggi sono tutti occupati con blandizie e minacce a cercare di far rinunciare il Presidente al suo progetto, nello sgomento della Segretaria e dello Studente che vedono avvicinarsi il dramma. Un singolare e silenzioso intermezzo è costituito da una esibizione di arti marziali con un combattente attaccato su tutti i fronti che esce vincitore da ogni scontro. Spettacolare ma forse un po’ fuori misura dal ritmo narrativo. Il Presidente, pur consapevole del proprio isolamento, non recede e nell’ultima scena, con una simbolica mesta vestizione aiutato dalla moglie, si avvia verso l’annunciato Calvario. L’ambiente musicale è espressionista, l’onda lunga del Wozzeck arriva fino a oggi, il canto dei personaggi è essenzialmente declamato, non risolto, sospeso. Negli accenti più drammatici appare il registro di falsetto, c’è anche qualche accenno di concertato nelle scene d’insieme, mentre l’introduzione alla scena di Portorico con il Senatore americano richiama le musiche dei film italiani degli anni '50/'60.
Commovente verso la fine il Coro che canta il Pater noster in esperanto. Grande prova di tutta la compagnia di canto, in particolare hanno brillato Sabrina Cortese (Segretaria), Chiara Osella (Studente), Daniele Adriani (Presidente), Clemente Daliotti (Intellettuale). L’Orchestra di Roma Tre, ben guidata dall’esperto Gabriele Bonolis, ha portato a termine il suo compito con disinvoltura ed efficacia. La regia di Cesare Scarton è scabra ma di grande impatto drammaturgico e proietta la narrazione nel mondo senza tempo della tragedia. Pubblico entusiasta e commosso. Tutto esaurito il bel Teatro Palladium nel cuore del quartiere della Garbatella che non ha potuto accogliere tutti; speriamo che l’Accademia Filarmonica Romana, che ha affrontato lo sforzo produttivo (si trattava della prima esecuzione assoluta di una commissione d'opera), ne programmi quanto prima una ripresa.