USCITA DI EMERGENZA

Il teatro di Manlio Santan…


	Il teatro di Manlio Santan…

Il teatro di Manlio Santanelli nasce alla confluenza di alcune grandi voci del Novecento europeo, rielaborate in uno specifico narrativo e linguistico che tiene conto della tradizione culturale e drammaturgica napoletana. Il primo lavoro originale di Santanelli, Uscita di emergenza, è del 1979 e consegnò all’autore, allora quarantenne, una giusta fama nazionale e ben presto internazionale. Si tratta di un testo che sin dal titolo allude metaforicamente alla condizione di claustrofobia esistenziale dell’uomo occidentale contemporaneo, richiamando in modo dichiarato le stanze degli orrori di Harold Pinter, gli inquietanti luoghi del quotidiano entro i quali si consuma la tortura del vivere, e dai quali non è possibile fuggire.

I due protagonisti, Cirillo e Pacebbene, vivono in una stanza strutturalmente precaria, crepata, decadente, coi muri e i pilastri che minacciano continuamente il cedimento; in altri termini abitano con evidenza il loro stesso spazio interiore, precario, tormentato, incapace di stabilità – come lo stesso Pacebbene dichiara poi in una battuta. La loro vicenda si svolge nel quartiere degli emarginati, che richiama quello della Jennifer di Annibale Ruccello – il cui testo è di appena un anno successivo – in una casa che è prigione dell’anima, dal cui spazio esterno giungono soltanto segnali di minaccia, oppure d’impossibile speranza, attraverso l’illusione di una telefonata; ed anche qui è forte il contatto col testo ruccelliano.

Esistenze in declino, alle quali è chiaro come una condanna che il punto più alto della vita appartiene ad un passato concluso. Così la memoria si espande come lenizione alla sofferenza del giorno: il ricordo s’impasta col desiderio che oggi non ha più voce, diventa esemplare, e attraverso la contraffazione disegna la speranza che questa vita, declinata continuamente all’imperfetto, abbia un senso. Il presente invece è un incubo appena sopportabile, che progredisce iterativamente nel ciclo infinito di sospetto, minaccia e pentimento; una sorta di piccola ruota del malessere che scandisce ogni istante della vita dei protagonisti.

Un tema fondamentale - come ha osservato acutamente Enrico Fiore in un suo saggio - che ritorna con insistenza nel testo è quello del rito; un rituale apre e chiude la scena (la finta preghiera, la pastiera) e i personaggi stessi s’identificano coi mestieri che hanno praticato in passato, suggeritore l’uno, sacrestano l’altro. Provengono entrambi da mondi totalmente ritualizzati, ma di questi mondi non sono stati che comprimari. E il rito del presente non è né solenne né carico di significato, ma pura iterazione dell’abitudine, gesto posseduto e insopprimibile che riempie il vuoto; ed è chiaro che questa miseria chiama in causa lo spettatore, e l’alienante ripetitività delle nostre stesse vite. Forse è per questo che il regista Pierpaolo Sepe decide di collocare uno specchio sul fondo della scena.

La regia dello spettacolo si muove su una linea di grande discrezione, lasciando parlare il testo e gli attori; piuttosto fedele alla scrittura, accentua appena il colore comico rispetto al grottesco e al drammatico, conquistando così qualche risata in più del pubblico. Una piccola, felice audacia arriva sul finale del primo atto, nella scelta del commento sonoro: quando arrivano i primi crolli nella stanza, e i due protagonisti si schiacciano alla parete in preda al terrore, parte in sottofondo l’intermezzo della Manon Lescaut di Puccini, una pagina di grandiosa sensualità erotica che insinua sulla scena una contraddizione, un colore incongruo, o forse suggerisce una solidarietà coniugale nel momento della paura, dopo l’ordinaria belligeranza del quotidiano.

Buona l’esecuzione dei due attori, Ernesto Mahieux più esperto ma leggermente meno incarnato nel personaggio, più sicuro e vivace l’ottimo Rino Di Martino, in una prova efficace e brillante che sostiene fino in fondo il ritmo non facile del testo.

Visto il 23-10-2012
al Piccolo Bellini di Napoli (NA)