Penultimo appuntamento dell’attuale stagione lirica prima della pausa estiva, Werther di Jules Massenet è tornato sul palcoscenico del Teatro Alla Scala dopo un’assenza di oltre 40 anni.
Allora l’interprete fu Alfredo Kraus, il più grande Werther della seconda metà del ‘900, a sua volta preceduto tra gli altri da Tito Schipa e Ferruccio Tagliavini, ed ora il testimone è stato raccolto da Benjamin Bernheim, considerato il Werther di riferimento dei nostri giorni e, visto quanto ascoltato in teatro, siamo pronti a sottoscrivere il giudizio senza riserva alcuna.
Benjamin Bernheim erede dei grandi Werther del ‘900
Il tenore francese vanta un timbro luminoso, una tecnica da manuale ed un fraseggio ricco di screziature che, uniti ad una sensibilità interpretativa non comune, gli consentono di cesellare un personaggio complesso, sfaccettato, attentissimo alla parola, in cui gli ardori romantici goethiani convivono con il male di vivere dei poeti decadenti francesi contemporanei a Massenet, che scrisse l’opera quasi 120 anni dopo la pubblicazione del romanzo cui si ispira e che da essi fu inevitabilmente influenzato.
Il Werther di Bernheim è un antieroe moderno, che non eccede mai nel drammatico anzi, spesso lavora di sottrazione, giocando più sul dettaglio che sull’enfasi, sia nel canto che sulla scena, anche se va sottolineato che l’alto livello recitativo accomuna tutto il cast della produzione. In sostanza un’interpretazione icastica di cui l’applauditissima “Pourquoi me reveiller” ne è il coronamento.
Al suo fianco la Charlotte di Victoria Karkacheva è penalizzata da una dizione non sempre intelligibile che a volte ne compromette il fraseggio, tuttavia l’interprete cresce nel corso dell’opera grazie ad un timbro brunito e ricco di armonici ed una presenza scenica incisiva.
Jean-Sébastien Bou è un Albert autorevole, dalla voce calda e morbida e dalla solida linea di canto, mentre Francesca Pia Vitale è una Sophie dalla voce fresca e rigogliosa, magnetica sulla scena ed intensissima nella resa del suo dramma. Ben assortito il resto del cast che si avvale delle valide prove di Armando Noguera (Le Bailli), Rodolphe Briand (Schmidt), Enric Martínez-Castignani (Johann), Pierluigi D’Aloia (Brühlmann) ed Elisa Verzier (Kätchen).
Meritatissimi anche gli applausi per gli allievi del Coro di voci bianche del Teatro alla Scala diretti da Bruno Casoni. Alain Altinoglu dirige con piglio romantico ma senza mai eccedere in eccessi drammatici e sonorità che prevaricherebbero il canto.
Al contrario, nelle parti più intimiste, quali ad esempio il duetto al chiaro di luna del primo atto, l’orchestra pulsa, respira con i cantanti, sottolineandone i tormenti e le angosce. La narrazione viene dipanata con grande equilibrio, riuscendo a trovare il colore giusto per ogni situazione: magnifica ad esempio per pathos e tensione è la sinfonia tra terzo e quarto atto. In sostanza un’ottima concertazione, al servizio delle voci ma allo stesso tempo ricca di personalità.
Un dramma borghese che strizza l’occhio a Sartre
Di grande efficacia la regia di Christof Loy che interpreta Werther come un dramma borghese che rimanda a Čechov e Ibsen; asciutto ed essenziale sia dal punto di vista recitativo che visivo. La scenografia di Johannes Leiacker è costituita da una parete che taglia a metà il palcoscenico: dietro scorre la vita -le feste di Natale, i brindisi, i bambini che cantano- ma i protagonisti resteranno sempre a proscenio e non varcheranno mai la porta per parteciparvi, salvo Werther quando andrà suicidarsi, restando sempre relegati in una sorta di anticamera di una vita mai pienamente vissuta.
Uno spettacolo intimista, misurato, in cui almeno per i primi due atti in scena non succede nulla di eclatante, ma, se si consente il gioco di parole, tutto quello che non succede non succede molto bene, grazie ad una recitazione attenta e calibrata che, per una volta non lascia i cantanti sul palco in balìa di sé stessi ma li fa agire in modo efficace e consapevole mantenendo sempre vive le tensioni reciproche.
Tensioni che deflagrano nel terzo atto nella potente scena delle lettere ma che raggiunge il culmine nel quarto atto in cui il regista ha la felicissima intuizione di lasciare in scena anche Albert e Sophie -bravissimi i due interpreti nelle rispettive controscene- durante la morte di Werther, mettendo a nudo tutti i contrasti emotivi tra i quattro protagonisti in uno spazio che, come in una sorta di Huis clos di Sartre, li imprigiona nei loro rapporti impedendo loro di uscire nonostante la porta aperta sul fondo.
Al termine un teatro esaurito ha accolto con applausi entusiasti quella che si è rivelata come la migliore produzione scaligera dell’attuale stagione.