“Poema vegetale”, come lo definisce la traduttrice Susanna Basso, il romanzo Spedizione al baobab della scrittrice sudafricana bianca Wilma Stockenström, cui è ispirato lo spettacolo, è stato scritto nel 1981 in afrikaans. Il racconto di una schiava che trova parola nella lingua stessa di chi quella sofferenza ha causato, nella lingua straniera dell’offesa. Pamela Villoresi incarna la protagonista che racconta il suo desiderio di opporre resistenza a una vita di violenze alle quali è stata “naturalmente” costretta. Lo spettacolo è il poetico monologo di una figura femminile della quale non si conosce il nome perché – dice – “pronuncio il mio nome e non significa nulla”.
L’albero, il mitico e simbolico baobab in cui la vecchia schiava alla fine della sua vita si rifugia, l’accoglie e la protegge: “Conosco l’interno del mio albero come un cieco casa sua, come si può conoscere qualcosa che è nostra soltanto, e come invece non ho mai conosciuto le capanne e le stanze in cui mi veniva ordinato di dormire”. Dietro le spalle c’è la schiavitù, con le facce e i corpi dei padroni che hanno tormentato la sua vita.
Le riflessioni della protagonista ci aiutano a pensare e ci spingono a indagare sulle schiavitù di oggi, sulle nuove forme di costrizione che continuano a negare la libertà e la dignità umana. Diversi i piani narrativi: parole, immagini e musiche, eseguite dal vivo da Baba Sissoko, griot maliano chiamato a intonare un solo grande “canto corale di libertà”. La regia di Gigi Di Luca esalta il rapporto tra musica etnica e parola, linguaggi essenziali per un recupero dell’identità collettiva, attraverso i codici della tradizione popolare che si rifrangono nelle forme del contemporaneo.