Nella tragedia di Otello, Iago, straordinario demiurgo della scena, non si accontenta di uno spettacolino da incastrare fra due dialoghi come fa Amleto per smascherare l’assassinio del re suo padre, ma spinge la sfida creativa oltre la mimesi e compie il miracolo, rendendo reale ciò che reale non è. Gigante umanista, Iago conosce l’uomo meglio di tutti, è regista capace di profondissima maieutica e maneggia gli strumenti magici del Teatro con la maestria di un altro Prospero. In questo caso, il Teatro è teatro dei pupi - forse la nostra versione più vera? - ma purtroppo o per fortuna i fili sono recisi, non corrono più verso l’alto e il cielo come quello di Euripide è muto e vuoto, forse abbandonato per sempre.
In assenza di una qualche divinità creatrice – e riparatrice – ci si arrangia da soli con un guardiano portiere, incatenato a un teatro, teatrino, teatrone che a ogni bussata accoglie una compagnia e una storia nuova, una fabula da recitare, illuminare e cantare. Circondato da fondali di finte venezie, quinte di finti palazzi, tramogge di finte nevicate, Iago – per amore di Desdemona o per amore del Teatro chissà – allestisce un labirinto, quello della mente del Moro in cui finte parole accendono passioni vere, che portano dritte a epiloghi di morte; e ancora una volta vince la parola, il verbo, il logos, che squarciano il cielo come tuoni, fulmini e saette che traversano la scena inseguendosi vorticosi nel vento…