Lo chiamavano Fiorellino, una volta. Era il fratello minore di Fiorello, il noto showman siciliano. Molti hanno pensato che sarebbe vissuto in ombra, cavalcando il successo del famosissimo parente. Invece Fiorellino ha deluso i detrattori invidiosi ed è sbocciato per conto suo. Negli anni si è costruito una solida carriera tra TV e cinema, dando il volto e la voce a decine di personaggi, diventando il re incontrastato delle fiction RAI. Oggi ha 45 anni e la carriera si è consolidata, aggiungendo al parco successi anche il teatro. Fino alla primavera 2014 sarà sul palco, infatti, con “Penso che un sogno così…”, uno spettacolo su Domenico Modugno, ruolo che ha interpretato con grande successo in una miniserie TV nel 2013.
Un successo clamoroso nella miniserie tv e poi a teatro. Modugno pare essere un filone inesauribile.
Il mio spettacolo non è nato per cavalcare un successo, nasce molto prima della fiction. Ho sempre avuto il desiderio di raccontare un pezzo della mia vita, che non reputo essere speciale: ogni essere umano ha una storia da raccontare, io ho la fortuna di fare questo mestiere. Poi volevo raccontare in particolare la storia di mio padre, un uomo che per una vita ci ha cresciuti a suon di canzoni napoletane classiche, serenate siciliane e l'immancabile Modugno. Ovviamente non ho potuto sottovalutare il fatto che il destino abbia scelto proprio me per doverlo interpretare in un film: ho preso subito l'idea e l'ho scritta, poi con Vittorio Moroni abbiamo messo in ordine la drammaturgia e con la regia di Gianpiero Solari è diventato uno spettacolo e grazie anche al coraggio di Marco Balsamo, produttore libero e ispirato.
Ha interpretato molti personaggi, ma Modugno, a detta di molti, resta quello più vero e riuscito. Vista da dentro, è d'accordo?
Non saprei, se questo è quello che pensano in molti lo accetto. Non posso però dimenticare gli altri personaggi, non solo noti o famosi come Salvo D'acquisto o Joe Petrosino. Anche altre storie che ho raccontato fanno parte di un percorso importante della mia vita, da Scampia ai padri separati passando per Sarajevo nel mio prossimo film tv in onda a febbraio, probabilmente.
C'è spazio per la musica e le canzoni, al di là dei ricordi, in questo spettacolo?
E’ uno spettacolo anche musicale, non canto canzoni, ma le interpreto e racconto come sono nate, le colloco nei temi svolti durante lo spettacolo...sono molte e bellissime.
Le due "Italie" di Modugno: quello vero e quello di Beppe. Cosa è cambiato?
L'Italia di Modugno sperava; la mia è disperata e molto, molto incazzata. Peccato.
Perché Modugno è un mito intramontabile, anche tra i giovani?
Perché ha sempre scritto storie impregnate di umanità, sogni e straordinaria visione del mondo. E perchè sapeva immaginare i sogni e i dolori degli altri.
C'è una canzone non famosa di questo grande cantante che le è nel cuore?
“Cosa Sono le Nuvole” e sono fiero di averla riportata in luce a un pubblico che di Modugno conosceva soprattutto "Nel Blu Dipinto Di Blu".
La tournée è partita da Caserta il 7 novembre e toccherà tutta Italia fino al 29 marzo, con due lunghe teniture al Teatro Manzoni di Milano (13-30 novembre) e all’Ambra Jovinelli di Roma (22 gennaio-1 febbraio).
Vai alla scheda dello spettacolo.
“Ghigliottina!” Vi dice qualcosa?
Chi guarda la TV potrà facilmente associare la parola a un noto game show televisivo del preserale. Ma potrebbe essere anche la metafora di quello che accade in “All out”, il nuovo spettacolo di Lyra Teatro in scena al Teatro Caboto di Milano. Laura Tanzi, regista della pièce insieme a Demetrio Triglia, ci spiega l’essenza di questo spettacolo, in cui uno dei temi al centro dell’attenzione è la menzogna. Dopo l’analisi fatta in “Kvetch” di Steven Berkoff e in “Chi ruba un piede è fortunato in amore” di Dario Fo, in “All out” Lyra Teatro affronta il tema in modo nuovo: se nel primo caso era intesa come conseguenza del non essere all’altezza della situazione, nel secondo è vista come una trovata giocosa, che da vita a equivoci poi smascherati. In questo terzo e ultimo lavoro, la cui prima stesura risale al lontano 1986, si parla di menzogna seguendo punti di vista e prospettive differenti, promettendo un ritmo serrato e repentini cambi di registro capaci di tenere alta la tensione.
Un testo particolare, quello di “All out”. Ce lo racconta?
Particolare a partire dal titolo di sicuro: “All out” è un’espressione inglese non immediatamente traducibile. Vuol dire “tutto compreso” solo che, per rendere meglio l’idea in italiano, abbiamo scelto come sottotitolo “pronti a tutto”. Noi abbiamo scelto di usare la seconda versione dell’opera, che l’autore aveva appena finito di scrivere, con un taglio più attuale. Altre importanti novità riguardano il finale, diverso anche quello, molto più forte e immediato e il dover gestire ben dieci attori in scena, un’esperienza per noi nuova e complicata.
Che rapporto c’è con John Rester Zodrow, autore dell’opera?
Positivo, direi. Da perfezionista qual è, ha seguito da lontano la traduzione, che è fedele allo script originale, apportando anche alcune correzioni. E’ stato poi molto carino, venendo apposta dalla California in Italia, per assistere al nostro debutto del giugno scorso. E dopo, nel farci i complimenti per la qualità del lavoro, ha paragonato la nostra messa in scena a quelle di Broadway, realtà comunque diversa dal teatro italiano. In poche parole, il suo supporto è stato per noi importantissimo.
Un esordio niente male.
Assolutamente. C’è anche un aneddoto divertente legato ad “All out”. Zodrow ci ha raccontato che per la versione televisiva, la terza in ordine di scrittura ma più breve date le esigenze del piccolo schermo, è andato proprio negli studi di questi programmi, come “Ok, il prezzo è giusto”. A coloro che erano in coda per assistere allo show, ha dato dei biglietti per partecipare come pubblico ad “All out” realizzato per la CBS… solo che molti hanno pensato si trattasse di uno show televisivo vero! Insomma, si è scatenata una sorta di ‘guerra dei mondi’, in pieno stile Orson Welles, che ci è sembrata una cosa davvero curiosa.
Ma come è avvenuto l’incontro con questo testo?
Siamo partiti con l’idea di fare qualcosa di nuovo, mai visto e che mai nessuno avesse messo in scena prima, per poterci lavorare senza preconcetti. Poi, dopo quelli di Berkoff e Dario Fo, volevamo concludere con un terzo testo che affrontasse il tema della falsità. A quel punto, in modo assolutamente inspiegabile, istintivo, ci siamo orientati verso gli Stati Uniti, e dopo la lettura di tanti testi di autori contemporanei americani, abbiamo scelto “All out” che, a onor del vero, ci ha colpito da subito.
Si parla, appunto, di menzogna e finzione. Qual è la chiave di lettura nuova di questo spettacolo, rispetto ad altre opere che pur trattano questi temi?
Il nostro proposito era analizzare queste tematiche in modo completamente diverso, rispetto alle altre due opere che compongono quella che chiamiamo “trilogia della menzogna”. Qui, i concorrenti del game show sono sottoposti a delle prove, sia fisiche che psicologiche, anche estreme; solo che, per evitare problemi legali, i produttori chiedono loro di mentire, facendogli dire che quello che sta accadendo è falso, fittizio. La menzogna è dunque legata alla fragilità dell’animo umano: chi non ha sognato di dare una sterzata alla propria vita, cercando di accaparrarsi una vincita enorme? Per guadagnare tanto, forse, si sarebbe disposti a fare qualsiasi cosa.
Quanto conta e perchè il coinvolgimento del pubblico in sala?
E’ bene chiarire un equivoco di fondo: il pubblico è protagonista dello spettacolo, ma non andiamo a pescare nessuno in platea! La pièce è giocata sull’essere in onda e il fuorionda, con tutto quello che succede in questi due momenti. Il pubblico quindi partecipa spontaneamente, in modo ‘tradizionale’, con applausi, risate, fischi, come d’altronde avviene negli studi televisivi, con un ‘capoclaque’ che scalda gli spettatori.
Che rapporto hanno gli italiani, secondo lei, con i game show? Uno tipo di intrattenimento che spopola, almeno in certe fasce orarie.
Ce lo siamo chiesti, in effetti. Abbiamo anche valutato la possibilità di italianizzare il testo, per renderlo vicino alla nostra realtà. In certi game show americani avvengono cose decisamente insolite per noi, tipo santoni che mettono in palio guarigioni miracolose. In Italia non siamo ancora arrivati a quei livelli, però i format sono ormai internazionali, così come universali sono i linguaggi televisivi. Ci è allora sembrata superflua ogni modifica al testo, convinti che il messaggio possa arrivare al pubblico italiano anche con l’opera originale.
C’è una morale per questa favola ‘agrodolce’? Possiamo trarre qualche conclusione sul comportamento umano?
Non è un’opera moralistica, ma mostra quello che è e ognuno trae poi le conclusioni che ritiene opportune. E’ un po’ brechtiana, se vogliamo, affronta tanti argomenti in poco meno di un’ora e mezza, senza dire cosa è giusto e cosa no. Posso dire che è emersa una differenza non da poco tra italiani e americani, nell’importanza data alla famiglia: lo stesso Zodrow ci diceva che per gli americani è abbastanza normale anteporre il successo personale ad altro, anche ai propri affetti, mentre gli italiani sono ancora piuttosto ‘genuini’ e la scala di valori è diversa.
Ricorre con una certa frequenza il tema ‘matrimonio’ nella carriera di Chiara Francini, ultimamente. Dopo il vaporoso abito indossato in “Pazze di me” di Fausto Brizzi e la partecipazione a “Ti sposo ma non troppo” di Gabriele Pignotta, è ora a teatro con “Ti ho sposato per allegria”, per la regia di Piero Maccarinelli. A giudicare dai titoli, sembrerebbe qualcosa da prendere a piccole dosi, con attenzione alle controindicazioni, questo matrimonio. Ma non si può dire lo stesso di lei, Chiara. Anzi. Pur muovendosi con disinvoltura tra tv, cinema e teatro, sui social molti followers non mancano di manifestare un certo disappunto per non poterla vedere più spesso nelle loro città. Forse perché, nonostante l’immagine da pin up e l’aria vintage, l’attrice campigiana ha autoironia e una rara empatia che la rende meno ‘irraggiungibile’. Anche se non manca di far sognare. Sarà per questo che Alessandro Genovesi l’ha scelta per il ruolo in costume in “Soap Opera”, una commedia romantica che non disdegna toni noir e melò. Ed è da lì che iniziamo.
Dopo l’Alice di “Soap Opera”, ti rivediamo nei panni dell’esuberante Giuliana in “Ti ho sposato per allegria”. Cosa ti piace di quest’opera?
Ho scelto di partecipare al progetto ma, in realtà, è un po’ come se lei, Giuliana, avesse scelto me. L’ho amata subito: è un personaggio assolutamente peculiare perché leggero ma solo in apparenza, privo di sovrastrutture. Questo fa si che sia molto spontanea, con se’ stessa e con gli altri. Non ha alcun problema ad esprimere i dolori, le perdite e le défaillances della sua vita ma questo non la impoverisce affatto. Anzi, la fortifica e la rende assolutamente una vincente.
I due protagonisti sono persone che, tra ironia e ingenuità, si incontrano e si “incastrano”, in qualche modo. In una società come la nostra, segnata da amori liquidi per dirla alla Bauman, sono ancora possibili incontri come quello di Giuliana e Pietro?
Assolutamente si. Secondo me, la loro è la storia dell’amore vero, di come dovrebbe essere sempre. È una storia d’amore “perfetta” nella sua disarmonia, fatta di contrari ma anche di equilibri. Potremmo dire una sorta di disarmonia prestabilita, che può e deve verificarsi anche nel mondo di oggi.
Luciano Salce, nel 1967, ha curato la regia dell’opera, con Monica Vitti e Giorgio Albertazzi. Ora ci siete tu ed Emanuele Salce. Come hai vissuto il confronto con quei due ‘mostri sacri’?
Monica Vitti è una delle mie attrici preferite ed è stata diretta dal papà di Emanuele, infatti, nella versione cinematografica degli anni ‘60. Non ho però voluto vedere il film, perché il confronto con lei è assolutamente impossibile… così come quello con Adriana Asti, per la quale la Ginzburg ha scritto la commedia. Del resto, come sempre, cercherò anche qui di fare una cosa tutta mia. Ma dovete venire a teatro per capire cosa intendo!
Massimiliano Palmese in “Pop Life” scrive di una sua coinquilina “con una borsa giallo limone” e l’ambizione di diventare un’attrice “entro la fine del mese”. Cos’è rimasto di quella ragazza degli esordi?
È rimasto tutto, anche la borsa di cui parla Massimiliano. Chi mi conosce lo sa, sono sempre la ragazza di Campi Bisenzio con gli stessi valori e i principi di sempre. La stessa ragazza del contado che ha iniziato a muovere i primi passi al Teatro della Limonaia, a Sesto Fiorentino, mentre studiava all’università.
Chi sfoglia le riviste di moda, sa anche della tua collaborazione con Dolce e Gabbana. Ci racconti com’è nata e che rapporto hai con il mondo del fashion?
Tutto è iniziato quando ho partecipato ad una loro sfilata. Mi hanno chiesto di fare un cammeo nella campagna pubblicitaria per la moda uomo della primavera/estate 2012 e poi, trovandomi molto fotogenica, mi hanno proposto altri scatti. Oggi continuo ad essere loro ambasciatrice e sono molto felice di questa collaborazione: essere scelta da una maison come quella di Stefano e Domenico rafforza molto la mia immagine. Poi certo, il rapporto della moda con il cinema è importantissimo, molto stretto: da sempre le attrici sono osservate, come degli esempi a cui ispirarsi in fatto di look.
Quanto conta la bellezza nel teatro e nella moda? Quanto pensi abbia influito, la tua, nel tuo successo?
Conta eccome in quei contesti. La mia bellezza? Beh, diciamo che una certa avvenenza contribuisce ad essere percepita in maniera diversa, e aiuta nella carriera. Almeno agli inizi. Ma la cosa importante per un’attrice è più che altro avere una certa versatilità.
Descrivici il tuo rapporto con i social network.
Sono assolutamente consapevole della loro importanza, utilissimi per pubblicizzare la mia attività. Però, li uso “sporcandoli”, cercando di dare una mia impronta. Essendo poi una tipa schietta mi piace anche impostare dei rapporti umani, per quanto possibile.
La critica che più ti ha ferito in questi anni.
Alcune critiche negative ci sono state nel tempo, non c’è dubbio. Ma preferisco ricordare quelle positive, come quella di Franco Cordelli che ha parlato di me come dell’ “interprete ideale” per il personaggio ideato dalla Ginzburg. “Un’attrice di una vitalità irrefrenabile”… meglio di così!
E' Leopardi-mania: tra teatro e cinema, il poeta dallo "studio matto e disperatissimo" è ora protagonista più che mai."L'Infinito Giacomo" è un ritratto straordinario che gli toglie di dosso i panni da sfigato con la gobba con cui siamo soliti identificarlo. Giuseppe Pambieri ci solleva da anni di studi e, in un'ora e un quarto, ci presenta un Leopardi formato zip, un "bigino" inedito che (ri)scopre il poeta di Recanati attraverso l’Epistolario, lo Zibaldone, gli scritti filosofici e politici, le Operette Morali e i Canti. Ne esce un giovane come tanti, con le sue passioni e le sue contestazioni; un ragazzo dalle normali pulsioni sessuali che si strafogava di dolci e aborriva il brodo, tanto da arrivare a scrivere l'ode "A morte la minestra": "Ora tu sei, Minestra, dei versi miei l'oggetto, e dirti abominevole mi porta gran diletto...". Leopardi divertente e comico? Ebbene sì, e ce lo racconta proprio Pambieri.
Come nasce questo progetto di riscoperta del poeta?
Tre anni fa, mentre portavo in scena Edmund Kean, mi ha contattato Giuseppe Argirò, che è il regista nonché l'autore dell'assemblamento di questo testo. Mi è sembrata un'idea interessante e ho accettato volentieri. Il debutto lo abbiamo fatto al Teatro antico di Segesta all'alba, alle 5 del mattino, in un'atmosfera dalle suggestioni incredibili. Sono da solo in scena col leggìo, tanto che all'inizio pensavo fosse un po' riduttivo. Invece funziona benissimo, sia negli spettacoli al mattino per le scuole che nel serale.
Che ricordi ha del Leopardi studiato sui libri di scuola?
Mi piaceva molto e piaceva a tutta la mia classe, molto più del Pascoli. Di Leopardi c'era e c'è questo fascino strano, e lo spettacolo fa proprio emergere i suoi lati più curiosi che a scuola quasi nessuno è mai riuscito a scoprire.
Per esempio?
Che odiava l'acqua e non si lavava, che detestava la minestra e che era golosissimo di dolci, di gelato in particolare. Nel periodo in cui visse a Napoli, scendeva dal Vomero e si addentrava nella città, passando in rassegna le migliori pasticcerie e ingozzandosi di babà. E ancora, il suo rigore morale e la sua modernità: l'accanimento con cui si scagliava contro l'Italia fa venire i brividi, tanto che le sue invettive i suoi proclami ricordano quelli della Lega.
Come reagiscono gli studenti a questo "backstage" della vita del poeta?
Siamo abituati a liquidarlo in due parole: secchione e pessimista. Invece scoprono un ragazzo proiettato verso la vita, che pur non essendo felice non è un rancoroso. Uno, che con tutte le sue disgrazie, dalla vita carpisce ciò che può. Giacomo riesce sempre e comunque a bypassare questo suo stato terrificante per lanciarsi verso la vita... e "La Ginestra" ne è l'emblema.
C'è quindi solidarietà da parte dei giovani.
Assolutamente si. In fondo, era un giovane come loro, però minato nel fisico e con addosso questa maledizione: alto 1 metro e 41, con la tubercolosi ossea...è uno che suscita emozione e tenerezza. Al pubblico giovane piace perchè era un contestatore ante litteram ed era contro il conformismo in cui era immerso: viveva in questa casa nobiliare dove tutto era fermo, immobile, mentre lui e le sue opere rappresentavano un rottura. I giovani captano queste cose e quindi l'impatto emotivo è enorme.
Il film di Martone presentato a Venezia piace molto. Perchè la gente va a vederlo in questo momento di crisi? E' un'identificazione?
Innanzitutto fa piacere vedere un film italiano che ha successo ai botteghini. Sicuramente questa attenzione è esplosa anche grazie al film, ma c'è da dire che Leopardi l'ha portato in scena anche Gabriele Lavia poco tempo fa. Quello che vedo è che c'è un'interesse generale in Europa: a Londra addirittura hanno tradotto lo Zibaldone usando sette traduzioni diverse per riuscire a essere esaustivi.
Le liriche di Leopardi hanno un incipit di solarità luminosa, diversamente dalle Operette. Forse Giacomo nasce ottimista e vira poi nel pessimismo?
Sì, lo credo anche io. Era portato all'ottimismo. Di certo, se non avesse avuto questa infanzia orribile e la malattia, sarebbe sicuramente stato un altro. Ma non sarebbe stato Leopardi e non saremmo qui a parlarne ancora così tanto.
Se Leopardi vivesse ai giorni nostri, di cosa scriverebbe?
Vivrebbe di web, assimilerebbe i multimediali. Sarebbe uno all'avanguardia, un innovatore...e lotterebbe contro le tradizioni vecchie e appassite. Me lo immagino come un seguitissimo animale da social, con milioni di followers.
L'Infinito Giacomo
Al Teatro Manzoni di Milano l'11 novembre 2014
Al Teatro dell'Angelo a Roma il 17, 18 e 25 novembre
E da metà marzo 2015, una serie di matineés per le scuole al Teatro Quirino di Roma
In un parco, un vecchio seduto su una panchina saluta con la mano qualcuno. Michela Lucenti osserva in direzione del suo sguardo ma non vede nessuno. Quel saluto cade nel tempo di chissà quale ricordo: forse un figlio, forse una donna, forse la proiezione di un desiderio. “How long is now”, lo spettacolo di Balletto Civile che ha visto in scena, al Teatro della Tosse di Genova, insieme agli artisti anche 13 ospiti della residenza per anziani Duchessa di Galliera, ha la delicatezza dei gesti e delle parole di una volta, i colori di una fotografia ritoccata a mano. Ma possiede anche lo slancio e la forza di una testimonianza collettiva che attraversa le generazioni. Uno spettacolo commovente e profondo, che nel tracciare il passato di un vecchio professore, attraverso i suoi ricordi colma i vuoti della vecchiaia, le perdite di riferimenti spazio temporali. E lascia il pudore di un’identità che appartiene al corpo, al suo vissuto e al suo sapere.
Michela Lucenti, perché un lavoro sulla vecchiaia?
Sentivo da tempo la necessità di affrontare questo tema, a me caro, per indagare alcuni aspetti legati alla vecchiaia: la trasmissione del sapere, inteso come esperienza e conoscenza, alle nuove generazioni. Invecchiare è conoscere: noi siamo il frutto di ciò che è stato, non possiamo prescindere dal nostro passato. Per me passaggio generazionale significa trovare una piccola via di incontro, un passaggio di comunicazione.
Come nasce "How long is now"?
Dall’osservazione. E da un’immagine per me folgorante. Ero in un parco: un signore anziano seduto su una panchina poco distante all’improvviso saluta qualcuno che non c’è. Penso che si tratti di un ricordo, della percezione di una presenza reale. Da quel momento mi metto in ascolto e, osservando, emergono via via gli elementi che costituiscono lo spettacolo. Per esempio, le registrazioni di alcune telefonate che chiudono "How long is now" scaturiscono da un lavoro d’improvvisazione con gli anziani. Abbiamo chiesto loro di fingere di invitare i nipoti a trascorrere con loro una vacanza: allora hanno usato tutte le possibili attrattive, la sauna, il bagno turco, la colazione a buffet, la presenza di discoteche sul luogo di villeggiatura.
Lo spettacolo ha coinvolto in ogni piazza anziani di una casa di cura del territorio: come si è svolto questo percorso di coinvolgimento?
Nel caso di Genova abbiamo lavorato con gli anziani del Duchessa di Galliera per una decina di giorni, accompagnati dai referenti dell’istituto e dai parenti. Non tutti gli anziani se la sentono di partecipare allo spettacolo, ma la gran parte segue con piacere questa nuova avventura. Si tratta di un percorso che ha radici in anni di lavoro, giacché la compagnia ha avuto residenza per diverso tempo nella sede dell’ex ospedale psichiatrico di Udine, che ospita oggi un centro diurno per anziani disabili.
In questo lavoro ha coinvolto anche suo padre, nella parte del vecchio professore…
Mio padre, che lavorava come impiegato, non aveva mai recitato nella sua vita, non si era mai espresso con il corpo in scena. Però ha sempre amato il teatro. Se in apparenza non abbiamo mai avuto nulla in comune io e lui, questa sua presenza in scena mi ha emozionato permettendomi di scoprire una sensibilità di cui ero inconsapevole. In verità non è il primo lavoro che affronta con Balletto Civile. L’esordio è stato alla Biennale Danza di Venezia, nello spettacolo "Creature", in cui ha rappresentato un capitolo sulla bellezza incentrato sul tema della generazione.
Come definisce il suo lavoro di coreografa del collettivo Balletto Civile?
Per noi l’arte è strumento d’indagine della realtà, un lavoro in cui ci si sporca le mani. Abbiamo parlato di terremotati, di delitti, di malattia, di scambismo, di ciò che appartiene alla realtà che ci circonda. Presto affronteremo un lavoro sulla gentrificazione, un fenomeno sempre più diffuso di spostamento di gruppi sociali in determinate aree urbane. Cominceremo da un laboratorio in una comunità punk. Ho la sensazione che buona parte della danza e del teatro siano lontani dalla gente. Affrontare tematiche legate alla cronaca, alla società, alla politica non significa per noi, tuttavia, trascurare la dignità estetica e formale dello spettacolo.
I maestri che hanno lasciato un’impronta nella sua visione del lavoro?
Ho cominciato a studiare danza nella mia città, La Spezia, con Loredana Rovagna, la mia prima maestra. Devo a lei il primo insegnamento sull’importanza di osservare. In seguito un incontro fondamentale è stato quello con Beatrice Libonati per la conoscenza del lavoro di Pina Bausch. Tra le altre esperienze internazionali, quelle con Carolyn Carlson, Bob Wilson e Jan Fabre. Devo molto anche alla formazione di attrice presso la scuola del Teatro Stabile di Genova. La danza e il teatro alla fine sono confluiti in una sintesi: il teatro fisico di Balletto Civile.
E' il 6 marzo 1835 quando inizia ufficialmente l'attività dei Colla. 180 anni dopo, i marionettisti più famosi del mondo sono ancora qui, in una sede diversa, ma sempre a Milano. Da allora, migliaia di repliche e centinaia di tournée in tutto il mondo, con circa 30.000 pezzi (in continuo restauro!) tra marionette, costumi e scene stivati in tre luoghi diversi. Una storia incredibile, che li porta dal 1906 al 1957 al Gerolamo, l'unico teatro stabile a Milano insieme al Teatro alla Scala. Oggi, Eugenio Monti Colla, 75 anni, è l'ultimo marionettista storico del Gerolamo: con raffinatissima maestria continua nella sua attività, insieme ad altri professionisti. Un pezzo di storia che vive, pulsa e soprattutto lotta con le forme più moderne d’intrattenimento, che si fregia di una tradizione unica: i Colla sono l'unica compagnia che rappresenta l'altra Expo milanese del 1906. Nel 2015, infatti, metteranno in scena “La sposa del sole”, una fiaba giapponese che vedrà gli stessi materiali usati del 1906 nello stand Expo del Sol Levante. Eugenio Monti Colla ci apre le porte del suo Atelier, in un affascinante racconto che attraversa quasi due secoli.
Come si diventa marionettista?
Nel mio caso è il DNA della famiglia, ma lo diventi quando pensi di avere tra le mani un oggetto e riesci a farlo vibrare in maniera tale da comunicare le tue emozioni umane attraverso i fili. Se il pubblico le coglie attraverso questo pezzo di legno che si muove, ci sei riuscito. Non è difficile, uno deve avere solo voglia di uscire da se', lasciarsi andare e vivere questo pezzo di legno. Noi siamo solo dei mezzi. Da noi non esiste "la mia, la tua, la sua": chi vuole fare il marionettista deve capire il rito dell'oggetto e deve saperle muovere tutte.
Mica facile.
Idealmente, uno dovrebbe sapersela anche costruire. Poi è ovvio che non tutti sanno fare tutto: io per esempio non so dipingere e non so intagliare il legno, ma mi dedico ai costumi, scrivo i testi, curo la regia. C'è uno standard di costruzione che voglio sia rispettato nei pesi specifici: c’è quello che fa le teste e mi maledice ogni volta che dico che non mi piace.
Quando si può dire di essere bravi?
Quando invece di tirare solo i fili, li solleciti come quelli di un'arpa in maniera tale che la marionetta prenda movimento. E' sbagliato dire "ti tirano i fili come una marionetta": chi tira i fili non è un buon marionettista. Questo è un mestiere che si ruba con gli occhi: se non hai un personaggio da muovere, devi guardare gli altri. I primi ragazzi li ho buttati allo sbaraglio. Un giorno ho detto: "Ora tu muovi questa!”. Panico assoluto! Ma è stato un buon metodo educativo.
Come si prepara uno spettacolo?
Devi lavorare con gente che lo fa da anni, e devi iniziare a pensare al progetto almeno due anni prima. Poi pensi ai disegni delle fisiognomiche, ai bozzetti dei costumi, delle scene e iniziare a lavorare subito con parruccheria e calzoleria, perchè i personaggi sono tanti. Per quanto possibile si devono cercare le stoffe autentiche nei mercatini: inutile fare gli orli, le marionette possono diventare oggetti di antiquariato, come nella tradizione della mia famiglia.
E il pubblico? Com’è cambiato nel tempo?
Io l'ho vissuto da quando al Gerolamo veniva Luchino Visconti coi suoi assistenti a vedere lo spettacolo. Trovo che le reazioni siano sempre uguali: c'è chi si lascia andare, dimenticando tutte le sovrastrutture che ci ha dato il progresso. Chi riesce a essere ingenuo fino in fondo non si accorge neanche più dei fili.
Tra smartphone, tablet e videogiochi di ultima generazione, come reagiscono i bambini a questa forma di intrattenimento?
Lì dipende da chi li ha portati a teatro, a chi li ha preparati. Questo non è teatro per bambini, non è un teatro di marionette, ma è con le marionette, che è una bella differenza. Con le scuole abbiamo reazioni incredibili: c'è chi pensa che vi siano le lenti per fare apparire le marionette più grandi, che vi siano strane magie. E’ una ricerca del primitivo.
Le platee straniere vi accolgono in modo trionfale.
La recente tournée in Germania - in cui abbiamo portato il Rinaldo di Hendel, vedeva 27 professori d'orchestra che suonavano strumenti antichi, 8 cantanti sopranisti e nessun taglio fatto all'opera. In sette repliche abbiamo avuto quasi 6000 spettatori. Ogni sera, 35 minuti di applausi. Pensi che un giornalista de Le Figaro mi ha detto che Montecarlo non c'era più un posto: era rimasto solo il palco con gli otto posti della famiglia reale.
E l'Italia?
Ogni anno si ricomincia tutto daccapo. C'è purtroppo una grossa disattenzione: il comunicato con 5900 spettatori e i record passa in sordina e nessuno lo pubblica perchè non è abbastanza eclatante. Noi abbiamo un po' questa mentalità, dove molte cose sfuggono.
Quali sono i costi?
Facendo il regista non mi occupo mai dei costi, altrimenti sarei bloccato dalle mie scelte. Ma portare uno spettacolo all'estero si aggira sui 30.000 euro a recita. Poi se aggiungi i cantanti e l'orchestra... Ma la Germania se lo permette eccome.
Come si aggiorna questo lavoro?
La tecnica di animazione è cambiata tantissimo: ora tutte le marionette muovono la bocca e le mani, anni fa erano solo due. L'illuminotecnica era solo piatta, data dalle luci della ribalta o da sopra il boccascena; ora ci sono fari proiettori piccolissimi e costosissimi che servono per gli effetti. Poi abbiamo i motori in scena, che per esempio creano l'arrivo del temporale e che aiutano la vecchia scuola teatrale ad acquistare maggiore preziosità: mescoli sapienza barocca con trovate contemporanee con ottimi risultati. Il pubblico pensa che sia acqua vera, invece sono corallini colpiti da proiettori.
La manualità è anch'essa cambiata?
Cambia anche lei, certo. Io poi sono un incontentabile e i miei collaboratori dicono che faccio cose arzigogolate. Da piccolo soffrivo a vedere gli effetti del cinema e dicevo sempre che dovevamo trovare soluzioni per stare alla pari. Oggi ci invitano a Broadway e al MIT di Boston, dove abbiamo tenuto una conferenza sulla tecnologia sul teatro delle marionette odierno. La marionetta è l'attore virtuale, fornisce possibilità infinite, puoi fare anche Dio. Ma nessuno mi da' ascolto.
Ci si incasina là dietro con tutti quei fili, vero?
Ride. Certo! Ogni marionetta si muove con 6-24 fili e dietro al palco ci sono 12 marionettisti alla volta. Succede di tutto: i fili si spezzano, si aggrovigliano, non tornano al posto. Ma studiamo i movimenti al millesimo, e se uno sgarra è un macello. In casi di emergenza si arriva a tagliare il filo: sotto il ponte di manovra c'è la tambasse, una piattaforma di legno dove ci sono spilli, chiodi, forbici... insomma, tutto quello che serve all'occorrenza se succede qualcosa.
Ci sarà senz'altro una marionetta più difficile da manovrare...
Sicuramente la Leonora ne "Il Trovatore": la prima ha 18 fili, l'ultima ne ha 24. Ma anche la Carmen, che ha le dita mobili quando danza con le nacchere. Poi ci sono marionette da 25 kg: per muoverle si usano entrambe le braccia, si appoggiano i gomiti, in un gioco di scarico col corpo. I miei marionettisti si preparano fisicamente montando il ponte, portando cose, facendo i facchini. Qui non ci sono divisioni tra tecnici e marionettisti: e si impara così, evitando dissapori e vanagloria.
A un repertorio contemporaneo ci avete mai pensato?
Anni fa pensai a mettere in scena Brecht, con musiche dal vivo di Weil, ma il Piccolo ha posto il veto che le ombre strelheriane avrebbero disturbato... Ho pensato anche un Diluvio Universale ambientato tra i grattacieli di Milano...E credo proprio che lo farò.
La stagione 2014/2015 inizia il 7 novembre con "Il Trovatore" e propone diversi titoli di successo, come "Il Gatto con Gli Stivali": qui tutti i titoli in programma.
Le precedenti interviste di Teatro.it: 2013
Il tema è più che mai attuale: quanti modi ci sono per essere una famiglia? "Tr3s" è il progetto folle di tre amiche del liceo prossime ai 50 anni che, dopo essersi ritrovate e non avendo figli, decidono rimanere incinta insieme ...e dello stesso uomo. Una notte, in pieno amarcord tra rimorsi, rimpianti, recriminazioni e risate (e aiutate anche dall'alcol), progettano a tavolino il "padre" ideale e lo trovano in Alberto (Sergio Muniz). Una storia paradossale che tocca argomenti diversi, dalla maternità all'amicizia, che si incentra sul tema del rivedersi e della famiglia, nella sua più ampia accezione. Ne parliamo con Marina Massironi, una delle interpreti insieme ad Anna Galiena e ad Amanda Sandrelli, fino al 9 novembre al Teatro Manzoni di Milano.
Cosa le piace di questo testo?
Il fatto che porti un messaggio di libertà e di rispetto. I contenuti portano a loro volta l'assenza di un giudizio e di preconcetti. Insomma, è il famoso vivi e lascia vivere, mentre al contempo ti racconta di un bisogno che hanno le persone. E' un testo con molto ritmo, dove la risata la fa da padrona in un impianto a orologeria con molti accadimenti e molta follia.
E' così importante per una donna fare figli o si possono "partorire" altre cose ugualmente appaganti, come ha recentemente dichiarato Jennifer Aniston?
Se non hai figli non sei una donna fallita...semplicemente avrai un nucleo affettivo diverso. Lo spettacolo è più incline a definire il senso di famiglia, più che di maternità. Io non ho avuto figli, ma di certo non parteciperei a un progetto così folle delle tre amiche di Tres!
La famiglia c'è anche se non si ha, volutamente, la figura paterna?
Qui non si parla di famiglia in modo tradizionale, ma di un progetto affettivo insieme, alla creazione di un mondo di amore. Le tre protagoniste cercano un padre per i loro figli, non un compagno... e progettano una gravidanza comune per avere una famiglia, non tanto per il figlio in se'. E, nella loro ricerca dell'uomo ideale, si dipingono un quadretto: deve essere bello, alto, sexy, intelligente, ben dotato, ironico, simpatico... e altre qualità che non svelo. Ciò che tutti noi abbiamo bisogno di un progetto affettivo, qualsiasi esso sia.
Come vive gli anni che passano?
Non ho ancora fatto un bilancio, li detesto. Fare i conti con il tempo che passa è sempre un problema... in alcune cose si migliora, in altre no. Si diventa più sensibili, più fragili, anche più impazienti, sicuramente più intolleranti. Ma allo stesso tempo si può combattere tutto questo, lavorandoci su. Poi c'è questo tabù della parola "menopausa", questo termine terribile di cui non si parla tanto volentieri.
Perchè secondo lei?
Mah, forse per il pudore di aver finito una fase della vita...ma la vita non finisce con la menopausa... ce n'è anche una dopo! (ride). Invece il passare degli anni ti può portare anche molti vantaggi: riesci a correggere alcuni difetti, cosa impossibile nell'impeto della gioventù. E poi arriva anche la capacità di sapersi perdonare, non pretendendo più la perfezione.
La prima parte dello spettacolo verte sul tema del re-incontro e dei ricordi. Facciamo un flashback di trent'anni, ai tempi degli esordi col duo Hansel e Strudel insieme al suo allora fidanzato Giacomo Poretti (di Aldo Giovanni e Giacomo ndr).
Ho ricordi molto vividi, che cerco di mantenere tali. I primi tempi di inizio di vita, personale e lavorativa, contengono il nucleo emotivo più forte, la passione più intensa, che personalmente "sento" ancora grazie all'entusiasmo che ci mettevo. Erano anche tempi in cui c'era tanto lavoro, in cui trovavi diverse vie la per sbarcare il lunario facilmente: c'era il teatro, il doppiaggio, lo speakeraggio, tante attività collaterali.
Quali sono gli interessi di Marina Massironi, oltre al lavoro?
Viaggio, leggo, leggo, viaggio... frequento molto gli amici, e quando non sono in tournée cucino. Per un po' mi sono data anche al giardinaggio,...ma era troppo pesante (ride). Da qualche anno ho spostato la base in un luogo neutro e mi sono trasferita in campagna in Romagna.
Uno strano ma riuscito connubio, quello tra Neri Marcorè e la Banda Osiris. Dopo il successo della scorsa stagione, è ripartito sabato 4 ottobredall’Archivolto di Genova – sede della produzione – il tour di Beatles Submarine, lo spettacolo che Marcorè porterà in giro per tutta Italia (dall'8 al 19 ottobre al Piccolo di Milano) fino alle soglie delle feste natalizie, insieme con la straordinaria Banda musicale, che da anni porta in scena i grandi della musica con un approccio ironico e dissacrante, ma sempre di altissimo livello.
Teatro.it ha incontrato telefonicamente, durante le prove, proprio uno dei componenti della formazione musicale, Carlo Macrì.
Com'è raccontare i Beatles?
Naturalmente la fa da padrone il linguaggio musicale, che è pertinenza propria della Banda: ci siamo divertiti a giocare e ironizzare, con molto rispetto, sul mito dei Beatles. D’altra parte, il nostro compito era riproporre alcuni loro brani non in maniera canonica, perché noi siamo un gruppo che non esegue cover perfette, ma adottiamo la nostra cifra stilistica “trasformando” i brani soprattutto tramite l’utilizzo dei fiati. Teatralmente parlando, invece, non affrontiamo i Beatles dal punto di vista storiografico (chi erano, cosa hanno prodotto), ma attraverso dei racconti che accompagnano le canzoni, raccontiamo talvolta le vicende legate ai Fab Four, ma soprattutto atmosfere e situazioni, il mondo di quei favolosi anni.
Tra le canzoni che riproponete nello spettacolo, qual è la più semplice e divertente cui approcciarsi e quale invece quella che presenta maggiore difficoltà?
La canzone che abbiamo trasformato più di tutte è Hey Jude. Ne eseguiamo sette versioni differenti all’interno dello spettacolo e sono i momenti più divertenti. La più difficile? Yesterday, che in questa seconda parte di tournée è stata radicalmente trasformata e viene eseguita solo con fiati e chitarra acustica e devo dire che è stato piuttosto difficoltoso riuscire a trovare una soluzione intelligente e originale, ma credo che ci siamo riusciti.
Neri Marcorè è sicuramente un attore poliedrico, ma non un musicista di professione. Qual è stato il suo sforzo per riuscire a tenere il "ritmo" con la Banda Osiris?
Ha accettato di buon grado! Anzi, in un primo momento non avrebbe nemmeno dovuto essere coinvolto, perché questo era un progetto che ci eravamo prefissati di portare avanti noi insieme con il regista Giorgio Gallione. Il quale ne ha parlato con Marcorè, che ha detto ‘Voglio esserci anch’io’. Neri ama moltissimo cantare, suona bene la chitarra e soprattutto adora i Beatles, a differenza nostra che, da giovani eravamo molto più Rolling Stones! Abbiamo riscoperto i Fab Four grazie a questo spettacolo, soprattutto dal punto di vista musicale. Il connubio tra Banda Osiris e Marcorè era un’idea “di vecchia data” e stiamo constatando che funziona alla perfezione!
Gli aneddoti colorano la storia di uno spettacolo. Ce ne raccontate uno vostro?
Una cosa che a me non ha fatto tanto ridere… Noi cambiamo sette volte la giacca durante questo spettacolo ed è la prima volta in 35 anni di carriera che ci succede, quindi siamo spesso in agitazione…A parte sbagliare l’ordine delle giacche da indossare, nella velocità dei cambi scena, io una volta ho appoggiato il mio basso tuba sulla pedana della batteria (a due metri da terra) e, infilandomi la giacca, ho dato uno strattone facendo cadere lo strumento da un altezza di due metri. Naturalmente ho dovuto portarlo a riparare!
Una grande passione la sua, quella per la danza, che da Tirana in Albania dove è entrato giovanissimo all’Accademia Nazionale di Danza e si è diplomato nel 1992, lo ha portato in Italia. Qui Kledi Kadiu ha avuto successo come danzatore, coreografo, attore di fiction televisive e di film e persino conduttore d programmi sulla danza. Fondatore della Kledi Dance, attualmente dirige due scuole di danza a Roma, mentre una decina di scuole sparse su tutto il territorio nazionale, si sono affiliate alla sua. Quest’anno per la seconda volta farà parte del corpo docenti di “Amici” e contemporaneamente sarà in tournèe fino al 20 di aprile in tutta Italia con lo spettacolo “Contemporary Tango” in scena al Teatro Elfo Puccini per MILANolTRE con il Balletto di Roma. E' qui che lo abbiamo incontrato.
E’ la prima volta che lavora con il Balletto di Roma e con Milena Zullo che ha creato questa coreografia?
Sì con Milena Zullo è la prima volta che lavoriamo insieme ci siamo subito trovati in grande sintonia, mentre con il Balletto di Roma avevo già lavorato nel 2007 con Fabrizio Monteverde per la messinscena di “Romeo e Giulietta”. Mi è piaciuta molto l’idea della Zullo di contaminare un ballo tradizionale come quello del tango, con il linguaggio della danza contemporanea.
In “Contemporary Tango” si racconta una storia?
In un certo senso è una storia di incontri, è ambientato in una milonga, ovvero il luogo tradizionale dove gli appassionati di questo genere si trovano per danzare. Vedrete tanti personaggi di diverse classi sociali che in un’ora e un quarto di tempo, cominceranno a conoscersi, corteggiarsi, amoreggiare. Una specie di rito in cui l’uomo e la donna, entrano in contatto attraverso il ritmo avvolgente e l’abbraccio del tango. In scena, oltre ai ballerini della compagnia che mescolano quindi elementi di danza neoclassica con i passi tradizionali del tango, ci saranno anche due tangeros per offrire al pubblico anche momenti di puro tango argentino.
Lei ha mai frequentato una milonga?
Sì e devo dire che mi è piaciuto molto l’atmosfera che si respira.
Da ballerino ad attore, da conduttore televisivo a giornalista. Cosa consiglia ai giovani che vogliono intraprendere in Italia il mestiere del ballerino? Meglio fare anche altri lavori?
Per quanto mi riguarda la spinta che mi ha portato a intraprendere più strade è sempre stata legata alla passione per la danza, ogni esperienza ha arricchito il mio bagaglio artistico e di vissuto personale. Rispetto alla situazione della danza in Italia, abbiamo una bellissima tradizione che tutti ci invidiano, ma quando i giovani cercano lavoro nel settore della danza, o vengono sfruttati, o vengono pagati pochissimo. Purtroppo nel 2014 siamo ancora in questa situazione e il mio consiglio è quello di fare esperienze all’estero, frequentare stage per potere ottenere borse di studio e quindi avere la possibilità in seguito di ottenere contratti di lavoro.
Una stagione che privilegia la danza quella che il Carlo Felice propone al pubblico: otto titoli di lirica e dieci titoli di balletto che spaziano da Gaetano Donizetti a Benjamin Britten, da Marius Petipa ad Alvin Ailey. Maurizio Roi, neosovrintendente dell’ente lirico-sinfonico genovese, è convinto: restituire al Teatro la sua identità significa riprendere la tradizione della danza, da anni trascurata. A fronte però di un’apertura brillante con L’Elisir D’Amore, romantica e virtuosa con La Bayadère, la situazione della Fondazione lirico-sinfonica non lascia adito a sorrisi e sogni ad occhi aperti. Il bel Teatro deve risanare un passivo di oltre cinque milioni di euro.
Maurizio Roi, che impulso intende dare al teatro nei prossimi mesi?
A teatro ci sono due cose che vengono prima di ogni altra: mettere in scena spettacoli e portare a teatro quanti più spettatori possibili. Questi sono i due semplici aspetti in cui mi impegnerò nel corso dei prossimi mesi. Naturalmente per poterlo fare occorre lavorare al risanamento economico e finanziario del Carlo Felice e al piano strategico per accedere ai prestiti previsti dalla legge Bray.
La stagione presenta molta danza. Da quattro titoli si passa a dieci: un nuovo corso?
L’attività del teatro contiene i filoni di lavoro su cui il teatro stesso può costruire la sua identità: il Concorso Paganini, con l’impegno generoso del direttore d’orchestra Fabio Luisi; il mix tra opera di tradizione e popolare, con la presenza di titoli del ‘900. La danza, che riprende la grande storia del Festival di Nervi e per il Carlo Felice è una vocazione dalla tradizione antica.
Qual è la peculiarità del Carlo Felice rispetto agli altri enti?
Le peculiarità sono tante, innanzitutto rappresentate dalle caratteristiche della città di Genova: di media grandezza, portuale, con un occhio all’America, in una regione dai collegamenti non semplicissimi. In Liguria, oltre al Carlo Felice, realtà significative sono l’Opera Giocosa a Savona e l’Orchestra di San Remo; poi, naturalmente, la GOG, Giovine Orchestra Genovese che costituisce una delle eccellenze nazionali di cui ospitiamo la stagione. Insomma, per questi motivi è necessario lavorare in un’ottica regionale, sia per il pubblico sia per l’attività delle nostre masse artistiche.
C’è la possibilità che il suo si trasformi in un incarico pieno?
Il mio incarico scadrà con l’approvazione del nuovo Statuto, così come prevede la legge Bray, e comunque al 31 dicembre 2014. Dopo quella data Sindaco e Ministro individueranno il nuovo sovrintendente.
Gli enti lirico-sinfonici stanno vivendo una situazione drammatica: come pensa di affrontare il problema del passivo in bilancio?
Tutte le Fondazioni liriche sono in grande difficoltà. Ci stiamo preparando ad accedere ai fondi della legge Bray: oltre a questo non vedo altra soluzione che lavorare per spendere meno e incassare di più.
L’Emilia Romagna, da cui proviene, è terra di teatri. Cosa si porta dietro di quel vissuto professionale?
E vero. L’Emilia Romagna è terra di opera e spettacolo. Sono molti anni che mi occupo di importanti strutture della mia regione. E’ lì che ho imparato che la cultura è un diritto e una risorsa. Ma soprattutto che il teatro è un servizio pubblico e un modo per capire il mondo e la vita.
"Ma Vie Je T’Aime" è il brano che segna l'esordio ufficiale di Cosimo Picaro nel mondo della musica. Tra emozioni e consapevolezza, il talentuoso e raffinato artista milanese ci racconta idee e aspettative che si nascondono dietro il singolo che anticipa l'uscita del suo primo album. E poi c'è Giovanni Nuti, straordinario Maestro con il quale Cosimo ha avuto al fortuna di collaborare, per cominciare "un percorso di crescita personale e professionale".
"Ma Vie Je T'Aime" è una canzone che parla di un uomo “schiavo d’amore” e del suo rapporto con una donna bella e crudele. Come è nato questo pezzo e perché lo hai scelto come tuo biglietto da visita?
Questo pezzo nasce innanzitutto perché sono stato affascinato dalla bellezza del testo, a mio parere, molto significativo e anche vicino al mio sentire. Mi piace moltissimo quella definizione che Mario Castelnuovo dà dell’uomo che ama alla follia, e che diventa "schiavo d'amore" perché ama e vive d’amore. E per l’amore della sua donna è disposto anche a sacrificare se stesso. Per me essere schiavi d’amore è la più grande prova d'amore. E credo che tutti, nel proprio intimo e nella propria esperienza, almeno una volta nella vita siano diventati “schiavi d’amore”. Spesso non riusciamo pienamente a donarci alla persona amata, tanto da divenirne schiavi perché siamo frenati da false credenze che arrivano dall’educazione. Ma essere schiavi d’amore è la più grande e bella rinuncia di una parte di sé, per affidarci con fiducia a chi amiamo. Perché solo quella persona è in grado di comprenderci e dominarci, come domina se stessa. Una prova di vero amore.
La scelta di cantare parte del brano in lingua francese ha una spiegazione ben precisa oppure è solo uno sfizio personale?
Non ho scelto la lingua: non ho fatto altro che riproporre il testo di Mario Castelnuovo, che prevede nel ritornello il francese. E credo che la cosa sia stata proprio geniale, perché il francese è una lingua molto sensuale e risponde bene ai testi che parlano di passione. Ma per sapere se Mario ha usato il francese per questo motivo, bisognerebbe sentire anche il suo parere.
Anche il video è molto particolare e ricco di immagini suggestive: come è nata l’idea di girarlo in un palazzo antico, tra arte e seduzione?
L'idea di girare il video nasce grazie alla gentile concessione e disponibilità della pittrice Alessandra Arzelà, proprietaria della casa straordinaria in cui sono ambientate le scene. Un luogo perfetto per un testo stupendo. Credo che le cose non arrivino mai a caso: e così nel mio percorso di vita, grazie a Giovanni Nuti, amico di Alessandra da molto tempo, ho potuto conoscerla e vedere la sua meravigliosa casa. In questo modo è nata l’idea di girare il video da lei.
Come definiresti la tua musica? E il tuo modo di cantare?
Amo la mia musica, amo il mio modo di cantare. Non è facile trovare un proprio stile, un proprio modo di cantare, di esprimersi e di comunicare emozioni, ma grazie al mio produttore, Giovanni Nuti, ci sono riuscito alla grande. E' straordinario,da lui non potevo che assimilare vera arte. E posso dirti che il mio stile ora mi piace molto ma sostengo anche che nessuno possa dare una definizione del proprio stile. Così io non definisco la mia musica: è la mia e basta. E quello che mi importa è che dia emozioni ed esprima emozioni.
Suoni diversi strumenti e hai studiato canto ad altissimi livelli: quanto contano tecnica e gavetta nel tuo lavoro? Quanto, invece, cuore e passione?
Ho studiato e mi sono applicato molto, sia nella chitarra che in altri strumenti, così come nell’uso della voce. E sono sicuro che ogni momento della mia preparazione sia stato importante: conta tutto nel proprio percorso, ogni minima cosa. Però, quello che io ritengo essenziale, è che in qualsiasi cosa si faccia, si metta cuore e passione. Lì è il segreto per riuscire bene nelle cose della vita.
Chi ti ha trasmesso l’amore per il canto e le sette note? Cosa ha fatto scattare la scintilla?
Nutro un amore innato per le sette note. Non ricordo un inizio vero e proprio: è come se la musica fosse nata con me. Ma la scintilla vera e propria è scattata con l'incontro di Giovanni, che è per me esempio, maestro, consigliere, e anche ispiratore. Ora, quello che posso affermare con certezza, è che questo amore non finirà mai: chissà quanta musica ascolterò, suonerò e canterò ancora. Non ne posso fare a meno, quanto il cibo che mangio ogni giorno.
A breve uscirà il tuo primo album di inediti: qualche anticipazione?
Qualche anticipazione la posso dare, certo! Sarà un album composto da una o due cover di grandi cantautori italiani e da brani inediti su musiche di Giovanni Nuti e testi di Paolo Recalcati. Il genere dei brani è lo stesso di "Ma Vie": sono ritmiche tecno-house con accompagnamento d’archi. Secondo me questo tipo di arrangiamento rende lo stile pop molto molto originale. A me piace moltissimo.
Come è nata la collaborazione con Giovanni Nuti? Quali preziosi consigli ti ha dato?
Ho conosciuto Giovanni tramite Facebook. Ho cominciato ad apprezzare il suo repertorio e soprattutto la sua collaborazione con Alda Merini e, di conseguenza, ad assistere ai suoi concerti. Queste sono state le vere occasioni della conoscenza con lui. Ma la collaborazione con un grande artista come Giovanni Nuti non è stata immediata, e neanche facile, visti i tanti progetti che porta avanti e i suoi mille impegni. Il percorso è stato per me, grazie a lui, di continua crescita. E non solo musicale, perché anche umanamente mi ha dato tanto. Mi ha insegnato una cosa importantissima nella vita e nel lavoro: godere dei sogni, vivere per i sogni, con la certezza che, prima o poi, si realizzeranno. E solo così si possono realizzare. Insomma, un maestro nel lavoro e nella vita. Quello che si vede e si ascolta ora, è frutto di quattro anni di duro lavoro.
Oltre all’uscita del disco, sono previsti live?
Per il momento è previsto il lungo lavoro di completamento dell'album. Se arriveranno possibilità e occasioni di esibirmi live, non mancherò di avvisare tutti. E mi auguro che sia molto presto!
Quale musica ascolti per trovare ispirazione o, semplicemente, per rilassarti e caricarti?
Ascolto me stesso e Giovanni Nuti, naturalmente! (ride, ndr). Al di là delle battute, non ho generi o artisti preferiti. Mi piace la bella musica di ogni tipo e di ogni epoca. Insomma, ascolto di tutto!
Artisti italiani e/o stranieri che stimi e con i quali vorresti collaborare?
Collaborerei con tutti. Perché la musica è anche unione. Vorrei avere mille vite per collaborare e cantare con tutti i veri artisti del mondo. Ma so che è un’utopia.
L’ultimo concerto visto? E l’ultimo album acquistato?
L'ultimo concerto visto è stato lo spettacolo in musica “Mentre rubavo la vita” di Giovanni Nuti e Monica Guerritore. Un grande esempio di musica raffinata e di come si tiene, in modo eccelso, la scena.
Pensi che il web possa aiutare i giovani artisti a farsi conoscere, oppure internet, come molti big sostengono, uccide la musica?
Sì. Penso che tutto possa essere d’aiuto per un giovane artista, web compreso. Ma la cosa a cui credo in modo essenziale è il caso, il destino, la fortuna. Quello che, ad esempio, mi ha portato a incontrare e conoscere Giovanni. Tutti questi fattori sono fondamentali. E un artista, giovane o affermato che sia, se è scritto nel libro del destino che è il momento giusto, non c'è nulla che possa fermarlo.
Aspettative e/o sogni per il tuo futuro di artista?
Sarò fortunato, ma ogni giorno realizzo un sogno, ogni giorno una mia aspettativa si avvera. Questo video è uno dei grandi sogni avverati. Forse questo capita perché la mia filosofia di vita è quella di vivere il presente al massimo? E, come scrive Battiato in una sua canzone: “Se vuoi sapere come sarai domani, osserva i tuoi pensieri di oggi”. E io sono molto ottimista, allora credo che il futuro non potrà che essere bello! Vivo al massimo, con la fiducia che il mio futuro di artista sarà la realizzazione dei miei sogni. Come è stato finora.
Molti artisti lasciano la carriera nel momento più fortunato, quando la loro espressività è all’apice. E’ la scelta che ha fatto anche Carlo Repetti, che del mondo artistico e teatrale di Genova è stato per quasi 15 anni indiscusso punto di riferimento. Bilanci sempre in pareggio a fronte di un rilevante numero di produzioni annuali, spettacoli in grado di abbinare innovazione e tradizione, grande spazio ai nuovi talenti con mise en espace gratuite al pubblico. Direttore del Teatro Stabile di Genova dal 2000, Repetti lascia a due mesi dalla fine del mandato e all’inizio della stagione che definisce: “ la più emozionante”, con una decina di spettacoli nuovi, da Amadeus di Shaffer al Sindaco del rione Sanità di De Filippo fino a Con l’amore non si scherza di De Musset, interpretati da Eros Pagni, Tullio Solenghi, Ugo Dighero, Aldo Ottobrino, Federico Vanni, Alice Arcuri; altri sette spettacoli di produzione e una rassegna di drammaturgia.
Carlo Repetti, perché dare le dimissioni prima della naturale scadenza?
Ho lavorato per 45 anni. Il prossimo dicembre il Teatro - ormai al 65 °anno di attività - diventerà Nazionale. E’ il momento giusto per lasciare spazio ai giovani. Tutto qui.
Cosa comporterà l’attribuzione di Teatro Nazionale?
E’ un riconoscimento che onora la qualità del nostro lavoro e il pubblico che da sempre ci sostiene. Certo, ci saranno più obblighi: per esempio quello di aumentare il numero di recite relativo alle produzioni e di rappresentarne l’80 per cento in sede.
La sua ricetta?
Ampliare le proposte per offrire una rosa di titoli ancor più articolata.
Ma il problema dei costi?
Abbiamo imparato a contenerli. Risparmio e qualità non sono aspetti contrastanti. Lo Stabile è un teatro sano nei suoi bilanci oltre che curioso e forte.
Cosa lascia al suo successore?
Un team formato da persone di qualità professionale, morale e artistica. E non mi riferisco solo alle competenze ma ad aspetti legati all’etica del lavoro, alla condivisione degli apporti individuali. E’ così che siamo riusciti ad affrontare la crisi che ha investito il mondo della cultura, ciascuno lavorando per un progetto comune.
Su quali aspetti ha lavorato nel corso della sua direzione?
Ho cercato di offrire innovazione, pur lavorando all’interno della grande tradizione portata avanti da Ivo Chiesa e da Luigi Squarzina, di cui sono stato allievo negli anni ’70 insieme con il regista Marco Sciaccaluga. Innovare per noi significa avvicinare spettacoli di più elevata complessità al pubblico e non viceversa.
In che modo?
Attraverso la proposta di scritture contemporanee la cui interpretazione sia affidata ad artisti di popolarità: basti pensare al binomio Luca Ronconi- Mariangela Melato o a Samuel Beckett-Ugo Pagliai ed Eros Pagni. Oppure a Benno Besson, che nell’Amore delle tre melarance su testo di Edoardo Sanguineti ha visto in scena Lello Arena. Altro aspetto importante è l’attenzione ai giovani, sia in termini di pubblico sia in termini di proposte, che suddividiamo nei diversi spazi: Teatro della Corte, Duse e fuori stagione alla Piccola Corte.
Producete anche lavori di giovani provenienti dalla Scuola del Teatro Stabile?
La scuola è fucina di talenti, e questo anche nel campo della comicità: basti pensare a Maurizio Crozza, Ugo Dighero, Carla Signoris, per citare alcuni nomi ormai affermati. Vi si diplomano ogni anno una decina di giovani a cui diamo spazio all’interno delle mise en espace alla Piccola Corte; mentre alle giovani produzioni in generale dedichiamo la sala del Duse.
Si dice che Genova sia la città dei teatri: è vero?
Negli anni ’90 la mappa dei teatri genovesi ha subito un importante cambiamento. Oltre ai teatri già esistenti, è stato ricostruito il Carlo Felice; è stato affidato il Gustavo Modena al Teatro dell’Archivolto; il Teatro di Sant’Agostino al Teatro della Tosse; il Politeama - allora una delle sedi dello Stabile - alla gestione privata. Ed è stato costruito il Teatro della Corte. Tutto ciò ha agevolato il disegno delle varie identità teatrali cittadine.
Tornerà a fare il politico?
Sono stato assessore comunale alla cultura per ben due mandati, una parentesi interessante fra l’esperienza di “ragazzo di teatro” nata negli anni ’70 sui banchi di scuola e proseguita come allievo di Ivo Chiesa, e quella di direttore. Ora so solo che voglio dedicarmi alla scrittura. Presto uscirà per Einaudi il mio romanzo “Il ponte di Picaflor”. Poi si vedrà.
Spauracchio e tedio oltreché gioia e diletto per infinite generazioni, ‘I Promessi Sposi’ figurano ancora a pieno titolo nei programmi ministeriali delle scuole superiori della nostra Penisola, tuttavia non sono molti gli insegnanti che l’anno della maturità li rispolverano come si dovrebbe e pochi - in genere donchisciotteschi collezionisti di numerosi e variegati anatemi - quelli che li tengono in vita per tutto l’ultimo anno come un vangelo da aprire durante ogni interrogazione.
In tale ottica l’iniziativa di Massimiliano Finazzer Flory (Monfalcone/GO 1964), attore e regista, si pone controcorrente rispetto alla damnatio memoriae, moda culturale di questi ultimi lustri, recitando fino a dicembre 2014 gli episodi più significativi del celebre “romanzo storico” nelle Biblioteche più prestigiose delle 20 regioni italiane, con la collaborazione del ‘Ministero dei Beni e delle Attività Culturali’, della ‘Direzione Generale per le Biblioteche’ e della ‘Direzione Generale per lo Spettacolo dal Vivo’ oltreché del patrocinio del ‘Centro Nazionale Studi Manzoniani’.
Il 25 settembre 2014 alle ore 17.00 è la volta della celebre Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia (passando da Piazzetta San Marco 13/a con ingresso libero fino a esaurimento dei posti disponibili) - cui seguiranno Catania, Perugia, Torino, Milano, Padova, Bari, Trento, Macerata, Genova e un’importante Cattedrale degli Stati Uniti - affascinante palco dove Finazzer Flory reciterà un monologo con i capitoli più conosciuti de I Promessi Sposi, proseguendo il lunghissimo tour che l’ha visto in più di 20 Paesi tra Europa, America, Asia e Australia.
Stimolati dal ricordo della prima rappresentazione alla Scala il 25 gennaio 2010, a poche ore dallo spettacolo veneziano poniamo alcune domande al regista/attore che entusiasta e appassionato come se si trattasse di una prima assoluta risponde con la consueta simpatica cortesia.
È un piacere ritrovarti nel pieno della professione che ami per chiederti cosa è cambiato rispetto all’esordio alla Scala nel 2010?
Lasciati i panni che allora ricoprivo di Assessore alla Cultura del Comune di Milano, mi ritrovo con estrema gioia nel mio ruolo preferito per portare vita nelle Biblioteche italiane attraverso un monologo completamente mutato rispetto al 2010 grazie alla presenza di una colonna sonora, di un allestimento scenico, di una drammaturgia, della danza… e in più di costumi secenteschi che aiutano meglio a entrare nell’atmosfera.
Che taglio interpretativo hai dato a I Promessi Sposi?
Se l’ambientazione si riferisce al 1628 in una dimensione assolutamente barocca, punto a una totale fedeltà al testo e a evidenziare quella felice precisione degli ingranaggi della lingua che giunge quale musica armoniosa alle orecchie degli spettatori oltre a rappresentare episodi de I Promessi Sposi con tematiche eternamente attuali.
Quanto dura il monologo?
78 minuti tra voce e danza (n.d.r.: lo accompagna Gilda Gelati, già prima ballerina del corpo di ballo del Teatro alla Scala) di cui 70 dedicati alla parola che fluisce e rende pregna l’atmosfera di questo altare della parola e dell’ascolto di episodi di una drammaticità che è insieme antica e attuale
Cosa può dare agli Italiani questo spettacolo?
Una particolare e piacevole coscienza di popolo che passa attraverso la lingua, una lingua ricca, fluente e attuale restituendo la parola e la ricchezza lessicale agli Italiani che deviati dalla brevità del web stanno diventando analfabeti di ritorno perdendo anche ciò che hanno acquisito nel percorso scolastico.
Che cosa, invece ha dato e può ancora dare agli stranieri?
La commozione in quanto il teatro offre insieme un singolare e affascinante mix tra esperienze e commozione che questa volta ci vengono da un Manzoni che non è morto, ma è più vivo e attuale che mai!
Salutiamo l’amico con le formule di rito e la speranza di incontrarlo nuovamente quando avrà doppiato le attuali 100 repliche.