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Contenuti redazionali

Elio De Capitani rilegge Moby Dick in una prova di grande teatro

Moby Dick alla prova: il respiro epico del mare, dell’uomo in lotta contro sé stesso, la natura, il destino. Il respiro epico del teatro nel teatro, che diventa metafora delle nostre stesse vite e delle parti che recitiamo per noi stessi e gli altri. Se era una scommessa, Elio De Capitani l’ha vinta.

Nel suo adattamento di Moby Dick alla prova, Elio De Capitani affronta la sfida di portare in scena questo dramma di Orson Welles, a sua volta ispirata al romanzo di Herman Melville. Lo spettacolo si presenta come metateatro: una compagnia si prepara a mettere in scena il Re Lear, ma l’impresario-capo comico propone invece di provare una nuova tragedia, Moby Dick. Attraverso questa struttura, Welles esplora le connessioni tra Shakespeare e Melville, tra la tempesta del Lear e la balena bianca, simboli di forze incontrollabili e ossessioni distruttive.


La regia di De Capitani è essenziale e potente. Il palco è spoglio, con pochi oggetti che prendono vita grazie all’interpretazione degli attori e alle musiche dal vivo di Mario Arcari, qui in versione di polistrumentista. C’è una forte valenza simbolica degli oggetti scenici. 

L'idea della morte, dall'oceano al palcoscenico

Nel Moby Dick di Melville domina l’idea della morte come eventualità tutt’altro che remota: la morte è la compagna quotidiana e silente del marinaio che lotta contro i suoi mostri e i suoi fantasmi, le sue ossessioni. Qui, in scena, abbiamo due alte scale con le ruote, di quelle che vengono utilizzate nei cimiteri per raggiungere i loculi più alti; e tre tavoli di acciaio con le ruote, come quelli usati negli obitori. Il resto sono corde sospese, ad evocare alberi e sartie della nave: e una specie di sipario trasparente su cui proiettare le immagini dell’odissea marina.


Questa scelta scenica richiama l’approccio di Welles, che nel suo adattamento originale puntava sull’immaginazione del pubblico per evocare l’oceano e la balena. Il risultato è uno spettacolo che, pur nella sua semplicità scenica, riesce a trasportare lo spettatore tra i marosi delle tempeste e nella mente ossessionata del capitano Achab.

Achab, consapevole della sua follia

Elio De Capitani, nei panni dell’impresario/Achab, offre una performance intensa e sfaccettata. Il suo Achab è un uomo consumato dalla sua stessa ossessione, ma anche consapevole della follia del suo inseguimento. Ma non può fare altrimenti. Accanto a lui, un cast affiatato e versatile dà vita ai vari personaggi della ciurma, alternando momenti di coralità a monologhi profondi.


Le musiche dal vivo, le luci curate da Michele Ceglia e i costumi di Ferdinando Bruni contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa tra realtà e finzione, tra il palco e l’oceano. La scena finale, in cui la balena non c’è ma si percepisce, è un esempio di come il teatro possa evocare l’invisibile con mezzi semplici ma efficaci.

Moby Dick alla prova è uno spettacolo che riflette sul potere del teatro e sull’ossessione umana per l’inconoscibile. Si esce dal teatro pensando che anche Melville sarebbe stato soddisfatto di questo adattamento del suo capolavoro.

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Crisi di Nervi: Stein porta in scena Čechov con ironia e grande maestria

Crisi di Nervi. Tre atti unici, l’ultimo lavoro firmato da Peter Stein, è un lavoro raffinato, essenziale e senza sbavature. La regia di Stein è equilibrata e precisa, caratterizzata da un elegante rigore estetico, in grado di valorizzare con sapienza la verve comica di Čechov e le qualità tecniche ed espressive di un cast di attori affiatato e ben assortito.

In Crisi di Nervi sono stati uniti e tradotti dallo stesso regista berlinese in collaborazione con Carlo Bellamio, tre celebri atti unici di Anton  Čechov: “L’orso” (1888), “I danni del tabacco” (1886) e “Una domanda di matrimonio” (1888). Il celebre drammaturgo russo scrisse questi atti ispirandosi alla commedia francese e al vaudeville molto in voga in Francia alla fine dell’Ottocento, con l’intento di rimediare all’insuccesso delle sue due prime opere.

Cechov: il rapporto conflittuale uomo-donna e la critica alla società

Peter Stein, tra i più importanti esponenti del teatro tedesco ed europeo della seconda metà del Novecento, è un profondo conoscitore ed estimatore di Čechov - fu tra i primi, al di fuori dalla Russia, a riconoscere la vena ironica dell’autore - a tratti addirittura comica, e a rendergli giustizia.

Il regista berlinese è infatti a suo suo agio con questi Tre atti unici, nei quali emerge la profonda conoscenza di Čechov della natura umana e delle sue debolezze, come il suo estremo divertimento nel tratteggiare personaggi che impersonano l’etichetta e sono fin troppo legati alle convenzioni sociali e alle apparenze, ostinatamente convinti di doversi mostrare integri e inflessibili - c’è anche una critica nemmeno troppo velata nei confronti di una società ingessata e claustrofobia, schiava di convenzioni sociali e vuoto moralismo, che tende a reprimere i desideri e le inclinazioni delle persone.


L’elemento comune a questi tre atti unici è il rapporto uomo-donna, conflittuale e complesso pur con modalità e risvolti differenti, inserito in una società in disfacimento, dove l’istituzione del matrimonio si rivela in crisi, pur non essendo rifiutata a priori.

Tre atti unici fatti di ironia e cinismo

I famosi atti unici di Cechov sono variazioni sul tema dell’umana ipocrisia e sulle nevrosi della società borghese di fine Ottocento - i cui protagonisti sono esseri tormentati, incoerenti, isterici, litigiosi e irritabili, dalla vocazione melodrammatica, ossessionati dal possesso di beni materiali e dalla propria immagine sociale e mossi da un estremo opportunismo e da un falso perbenismo.


Le crisi di nervi del titolo infatti alludono all’instabilità e alla volubilità emotiva di tutti i protagonisti, ma anche ai crolli e alle esplosioni improvvise di desideri inespressi, sentimenti celati e insoddisfazioni represse. Con tagliente ironia e divertito cinismo Cechov mette in scena le crisi di nervi a cui cedono i personaggi - provocate dal progressivo sgretolarsi delle apparenze: un’ipocrisia che riguarda anche la società attuale che come quella di allora è vittima di avidità, cupidigia, falsità e incapacità emotiva.


L’umorismo è la chiave con cui questi tre atti svelano le fragilità e i tormenti dei personaggi e le tensioni emotive che caratterizzano le loro relazioni: Stein con una regia essenziale, curata e sarcastica riesce a esprimere il contrasto tra l’esuberanza esteriore e la sofferenza interiore dei personaggi.

Gli interpreti accurati, precisi, divertenti e divertiti regalano novanta minuti di puro teatro, dove si ride tanto, ma si riflette anche sulla profonda attualità della riflessione e dell'acuta critica di Cechov nei confronti della natura umana e della società - parafrasando Giuseppe Tomasi di Lampedusa, tutto cambia per non cambiare nulla.

Cristiano De Andrè in Concerto: un tributo vibrante all’eredità di Faber

Prosegue il tour di Cristiano De Andrè nei teatri. Il cantautore genovese, figlio del grande Faber, torna ad affrontare la monumentale opera del padre dopo il successo dei quattro album De Andrè canta De Andrè, il cui ultimo tassello era il concept album Storia di un impiegato (2023).

Ricca di aspettative e bella energia l’atmosfera prima del concerto, aperto dalla giovane cantautrice D’Aria. De Andrè si accompagna per l’occasione ai suoi musicisti storici: Osvaldo di Dio alle chitarre, Davide Pezzin al basso, Ivano Zanotti alla batteria e Luciano Luisi, arrangiatore dei primi due volumi, alle tastiere.

Indimenticabili successi e chicche sorprendenti

Il repertorio è “il meglio del meglio” dell’opera summa di Faber finora affrontata dal figlio, ogni canzone trova spazio in una cornice melodica diversa ma sempre fedele all’originale. Si comincia con due brani in genovese, quel dialetto duro ma allo stesso tempo dolce che tanto amava il cantautore, si passa a pezzi iconici come Don Raffaè e Se ti tagliassero a pezzetti, proseguendo con alcuni brani di Storia di un impiegato. De Andrè interpreta e reinterpreta le canzoni del padre alternando vari strumenti: dalla chitarra acustica e classica al bouzouky, passando dal pianoforte nonché all’immancabile violino.

Così le poesie in musica di Faber prendono nuova vita, non solo quelle conosciute ma anche quelle più intime come Amico fragile, La collina, e così via. Del resto, Cristiano manifesta subito la sua “missione”, quello che sente come una sorta di dovere: continuare a suonare dal vivo le canzoni del padre per farle ascoltare a chi per ragioni anagrafiche non ha potuto assistere ad un suo concerto.

Messaggi attuali adesso come allora

Ogni tre, quattro brani, il cantautore parla con il pubblico, confidando aneddoti divertenti ed episodi di vita quotidiana, ricordando che il filo rosso che univa le canzoni del padre era la coerenza. Faber si è sempre interessato agli ultimi, ha sempre dedicato a loro le sue parole, ribadendo il concetto che “non esistono poteri buoni”. E allora come non parlare della guerra, attualizzando brani come Fiume Sand Creek o Sidun, scritta per il bombardamento della città libanese negli anni ’80. Ironizza amaramente Cristiano, pensando a cosa direbbe oggi suo padre dello sterminio nella striscia di Gaza, che accade da ormai più di un anno sotto gli occhi indifferenti del cosiddetto mondo civilizzato.

Fa riflettere il fatto che, nonostante passino anni, anzi decenni, l’umanità resti sempre uguale a sé stessa. Per dirla con le parole di Faber, ancora critichiamo chi senza pretese porta l’amore in un paese (Bocca di rosa), ci scordiamo di perdonare il prossimo e non sappiamo davvero cosa significhi il verbo amare.

Passano così due ore e mezza di musica, di parole, di pensieri ed emozioni che solo brani impressi nella memoria collettiva degli spettatori possono suscitare. E allora prosit per Cristiano De Andrè, che si fa carico dell’immensa eredità paterna condividendola così generosamente (come persona oltre che come artista) con un pubblico più che entusiasta.

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L’Empireo: un dramma corale al femminile che smonta il potere maschile

L’Empireo di Lucy Kirkwood: 13 donne in scena, con un solo uomo. E l’uomo stavolta non è il perno di tutto: è solo un comprimario, che per di più fa una pessima figura. La regia di Serena Sinigaglia restituisce in pieno lo scopo dell’autrice britannica nello scrivere questo dramma ambientato a metà del 700 nelle campagne inglesi: costruire un campionario di tipi umani e figure sociali fuori dal tempo, e quindi validi nel ‘700 come ai giorni nostri; perché le questioni sollevate sono universali. Lo spettacolo messo in scena da Sinigaglia con la dramaturg Monica Capuani è emozionante, divertente, coinvolgente.

L'assassina è una donna che si gestisce da sé

Nel 1759 una ragazza ai margini della società viene condannata a morte per complicità in un infanticidio: una giuria composta da altre 12 donne deve stabilire se è incinta, e quindi se può temporaneamente evitare la forca. Nella giuria ci sono 12 tipi umani piuttosto consueti: stavolta però declinati al femminile. L’imputata è la peccatrice: trasgressiva, marginale, ribelle, colpevole non pentita. La sua sessualità fuori dalle regole la condanna alla diversità ma ne fa anche il simbolo di una nuova resistenza, un nuovo modo di essere donna, di autodeterminarsi. 

Nella giuria ci sono la donna razionale e istruita, la bigotta, la tradizionalista, la vittima che non riesce a far sentire la sua voce, la giovane immatura e ingenua, la donna cinica e pragmatica, e altre ancora. Ma sono tutte maschere, che poi cadono e rivelano altre verità. 

Ogni tipo umano è anche il suo contrario. Con i suoi personaggi Kirkwood ci fa riflettere su temi fuori dal tempo come il potere, la maternità, la giustizia, la colpa, la solidarietà: con un pendolo che oscilla tra la condanna e l’empatia, tra la scienza e la superstizione. E ci fa riflettere anche sul tema principale: i ruoli imposti alle donne - nel corso dei secoli - da una società dominata dagli uomini.

L'uomo c'è, ma non conta nulla

Lo spettacolo è una grande prova di bravura per tutte le attrici. La scenografia, semplicemente, non c’è: la scenografia sono le stesse donne, con i loro severi abiti neri da lavoro, la loro mimica, la modulazione delle voci. Le vite di cui sono schiave, ciascuna a modo suo. Le 13 donne e l’uomo hanno una sedia ciascuno: a volte si alzano, fanno qualche passo, ma non ci sono movimenti scenici. Non ci sono protagoniste, i personaggi sono tutti alla pari.

 All’inizio sembra che le donne e l’unico uomo leggano dei fogli, fingendo di fare solo una lettura scenica: ma ben presto i fogli volano a terra, e gli attori iniziano a recitare. L’inviato del tribunale lascia il posto a un medico ginecologo, ma il risultato non cambia: il ruolo dell’uomo resta irrilevante e ininfluente.

I cicli si ripetono, la vita delle donne non cambia

Ma perché intitolare “L’Empireo” questo dramma? L’Empireo secondo le antiche credenze è il più esterno dei cieli, e anche l’unico che non si muove: metafora non troppo complicata del fatto che i meccanismi che regolano le pulsioni e i comportamenti umani sono sempre gli stessi. 

Un’altra conferma arriva dal fatto che la Cometa di Halley, che come tutte le comete torna ciclicamente a farci visita, viene citata tre volte: i cicli si ripetono, il passaggio della cometa non fa alcun miracolo, la condizione femminile non cambia, e tutti i misteri sull’essere donna restano immutati. “È proprio strano - dice una delle protagoniste - che conosciamo il movimento di una cometa lontana migliaia di chilometri, e non sappiamo come funziona il corpo di una donna".

Il medico dei maiali: Montanari e Bizzarri brillano nel dramma di Davide Sacco

Il re è morto! La frase, dipinta a caratteri cubitali sulla scenografia, è senz’altro la miglior sinossi del Medico dei maiali. Il testo di Davide Sacco è, però, molto di più: l’autore racconta con realismo e grande intensità la brama di potere degli uomini, ben supportato dalla notevole interpretazione di Francesco Montanari capace di evolvere il suo personaggio attraverso una metamorfosi caratteriale di grande credibilità.

Scritto da Davide Sacco e vincitore del Premio Nuove Sensibilità 2022, Il medico dei maiali è il terzo atto - dopo L’uomo più crudele del mondo e Sesto potere - della Ballata degli uomini bestia, testo pubblicato nel 2023 da Caracò Editore che racconta personaggi spietati capaci di manipolare le persone che li circondano al solo scopo di esercitare il proprio potere.


Il medico dei maiali è a metà tra il dramma e il thriller, con una tensione crescente ben arricchita da alcuni passaggi ironici capaci di strappare risate alla platea. Davide Sacco sintetizza molto bene la sua visione e la rende concreta grazie a qualità narrative e di adattamento che gli consentono di sviluppare con grande efficacia testi moderni e originali, carichi di sfumature e profondità dei personaggi, e di raccontare la natura umana con grande realismo. 

Resta imprescindibile, però, l’avvalersi di attori di qualità capaci di comprendere e ben interpretare la sua visione così da restituire al pubblico la piena efficacia dei suoi testi.

Abbiamo ucciso un re per salvare un popolo!

Improvvisamente accade l’imprevedibile: la morte del re d’Inghilterra per apparente infarto. La città è in tilt e per l’autopsia viene coinvolto Alfred, un veterinario specializzato in maiali casualmente in loco. Sopraggiunge anche Eddy, il principe ereditario, ubriaco e vestito da ufficiale nazista poiché reduce da una festa in maschera. Il tempo scorre e il protocollo prevede che il nuovo re tenga un discorso alla Nazione. Ma Eddy appare come un ragazzo immaturo, poco intelligente, che rifugge le responsabilità e rincorre la vanagloria. 

Dubbi, complotti e certezze si insinuano pian piano: se il re fosse stato assassinato, se Alfred non fosse lì per caso, se Eddy fosse diverso da ciò che appare? Emergono degli uomini bestia, pronti a tutto per arrivare a esercitare il potere. Un potere distruttivo, capace di corrompere gli animi e accendere una luce negli occhi di chi lo brama, come una miccia che lentamente innesca un’esplosione di violenza.

Ottanta minuti di grande intensità e tensione

Il medico dei maiali ha un ritmo crescente e grande capacità di catturare l’attenzione del pubblico. Davide Sacco dirige con un buon equilibrio, senza mai sconfinare in passaggi logici troppo articolati o esagerare con paradossi (l’uomo mascherato da maiale trova la giusta chiusura logica alla fine della pièce). 

Interessante il ridondare degli aneddoti su "Serge il maiale" che risultano efficaci nel rivelare la verità. Inoltre, attinge con intelligenza dalla realtà e il richiamo a Harry di Sussex (in veste nazista) è ben contestualizzato. L’ambientazione è solo una metafora, ma resta un pizzico di delusione per lo scarso utilizzo di richiami British.


Molto buone le prove attoriali: Francesco Montanari (Eddy) è capace di grande caratterizzazione del personaggio e l’interpretazione è di grande valore aggiunto; Luca Bizzarri è molto bravo, e soprattutto credibile, nel restituire un Alfred pervaso da ironia e anarchia. Buona anche la sintonia tra Bizzarri e Montanari. La scenografia è semplice quanto funzionale e la persistente scritta the king is dead si sostituisce alla mancanza del cadavere, ricordando in ogni istate il focus sul grave evento. Ben dosate sia le luci che la musica, capaci di aumentare atmosfera e coinvolgimento.

In conclusione Il medico dei maiali è un testo piacevole e moderno, originale e ben interpretato, capace di colpire il pubblico per l’intensità e spingerlo a riflettere sulla natura dell’uomo in rapporto con il potere.