Liberate la Bignardi!

Liberate la Bignardi!

Lanciamo un accorato appello per la costituzione del comitato "Liberate Daria Bignardi".
Perchè l’abito fa il monaco. Eccome.
Prendiamo "Le invasioni barbariche", trasmissione che la nostra conduce su La Sette, il venerdì alle 21.30. E, per la precisione, quella del 27 ottobre.
Nella storica occasione la Bignardi si è audacemente liberata dell’ingessato, ovvio, stantio, malinconico tubino-coperta-di-Linus nel quale aveva sino ad oggi costretta la propria femminilità birbantella.
In sostituzione le si gonfiava intorno alle gambe (belle) un abitino floreale che ha fatto miracoli.
Tant’è che, quando la normalmente controllatissima jena giornalistica che la abita, e che Daria tiene al guinzaglio (un guinzaglio piuttosto lungo, invero), si è trovata di fronte Gabriel Garko che aveva lasciato l‘anima nell’armadio, ed era un’unica, sfrontata, debordante spremuta di testosterone, tutto ammicchi e sfarfallii di doppisensi a due piazze, il vestito ha fatto la magia di farla arrossire.
La Bignardi – icona della compostezza stremata dalla mancanza di una qualsivoglia, apparente, debolezza - ha flirtato senza vergogna. Incoraggiata sicuramente anche dai sandali-stiletto rossi che indossava.
In sintesi: si è comportata da donna.
Anziché come la faticosa prima della classe cui eravamo abituati.

Professionalmente ineccepibile, documentata (grazie anche ad un’eccellente redazione, ovviamente) sino all’inverosimile, ma più curiosa dell’ospite che attenta alle sue emozioni, la Bignardi.
Quel tubino pareva tenerla al riparo da coinvolgimenti di sorta.
Una gran perdita per lo spettatore.
Perché,oggettivamente, i suoi ospiti sono sempre mixati in maniera fantastica e le interviste tarate con intelligenza anche sulla psicologia di chi accetta d’essere barbaramente “invaso”.
La sua trasmissione ha sempre avuto un buon ritorno di critica e di pubblico, pur rimanendo “di nicchia” (misteri della televisione: il Maurizio Costanzo Show, che andava in seconda serata e faceva un “lavoraccio” molto simile, ovvero indagare a bisturi sfoderato dentro l’anima della gente), ma mancava sempre qualcosa.
Adesso abbiamo capito che cosa.

Mancava il cuore.

C’è sempre stata molta testa.
Daria Bignardi tutto è fuorché una bambolotta scervellata e manovrata dagli autori.
Ma la testa può diventare anche “troppa”.
L’intelligenza, l’astuzia, l’arguzia, se non supportati da un cuore capace di pompare emozioni, di far scattare l’empatia tra intervistatore e intervistato, rischia di trasformarsi in zavorra. Di creare un sottile ma percettibile diaframma di ghiaccio anche fra lo studio televisivo e il nostro salotto (o tinello o quale che sia il posto deputato alla visione del programma).

Come d’incanto (le fiabe hanno tutte una loro preziosa simbologia, ne sapeva qualcosa Jung) quando un’ignota Fata Smemorino ha trasformato il tubino di Daria in un grazioso, svolazzante, femineo abito da fanciulla, ecco che, per un poco, quel cuore lo abbiamo visto battere. Stanchi di sentir pulsare solo la materia grigia.
Ebbene sì, l’abito condiziona. Può costringere o liberare.
E noi vogliamo la Bignardi più capace di amare i suoi dirimpettai.
Non solo e non sempre concentrata su quanto sono “fighe” le sue domande, ma anche, almeno un po’ (tutto sta ad iniziare) su quello che c’è dentro l’intervistato. Oltre le risposte. In luoghi lontani e misteriosi che si possono indagare solo a cavallo di un cuore generoso. Magari reso più libero e audace da un abito a corolla.