C’era una volta l’Arena di Verona dove si facevano, appunto, gli spettacoli «da Arena», ultra-iper-mega-kitsch, con sfilate terrificanti di comparse, tenori, cavalli e altri animali, e poi bighe e flabelli, piramidi e templi, piume e corazze, il tutto ispirato all’estetica del chi più ne ha più ne metta (in scena). Da qualche tempo, invece, il venerando Anfiteatro sta rinnovando i suoi cartelloni: se non nel repertorio, nei secoli fedele, almeno nel modo di presentarlo. In principio fu La traviata di Graham Vick, quella ispirata alla triste istoria di lady D, per la quale tutti si attendevano una sommossa e che invece, nella sorpresa generale, andò benissimo e anzi verrà ripresa nel festival estivo prossimo venturo. Ancor più clamorosa sarà la sua inaugurazione, il 22 giugno, con un altro dei sempreVerdi più nazionalpopolari, Nabucco, affidato a un regista estroso, geniale e imprevedibile come il franco-italiano Denis Krief, da cui tutto ti aspetteresti meno che l’Arena. E invece, fra una Luisa Miller per il Festival Verdi di Parma, Turandot alla Fenice, la nuova opera di Fabio Vacchi su libretto di Michele Serra a Siena e Il trionfo del tempo e del disinganno di Händel a Rimini («Meraviglioso. C’è un libretto strepitoso del cardinale Benedetto Pamphili, puro Pasolini barocco»), spunta Nabucco nell’ex Zeffirelliland.
Perché?
«Perché il Nabucco è stupendo e l’Arena pure. Sarà un meraviglioso videoclip lirico».
Un videoclip?
«Certo, perché quel che oggi ci affascina del Verdi giovanile è il ritmo folle con cui racconta le sue storie. Ti lascia senza fiato. È la ragione per la quale i nostri nonni non amavano i Verdi “di galera”. Noi invece sì, e moltissimo».
Naturalmente, si farà piazza pulita di tutta l’archeologia...
«Sia di quella assiro-babilonese che di quella operistica. Però non aspettatevi gli ebrei vestiti da lager o i riferimenti a Saddam Hussein. Lasciamole ai tedeschi, queste cose. Io all’Arena vorrei provare invece a fare il nazionalpopolare vero, quello giusto, quello di Jean Vilar che s’innamora del palazzo dei Papi di Avignone, ci monta Il principe di Homburg e ne fa innamorare tutta la Francia. Ha ragione il soprintendente dell’Arena, Claudio Orazi, che mi ha chiesto uno spettacolo colto ma per tutti. Perché è questo il paradosso di Verdi: è raffinato e popolare insieme».
Qual è l’idea di base?
«Verdi ci racconta un conflitto, perché sapeva che il conflitto è l’anima profonda del teatro. In quest’opera, in particolare, uno: quello fra il potere e la conoscenza, fra la violenza e la cultura. Cioè fra Nabucco e gli ebrei, non a caso il popolo del Libro. Quando alla fine Nabucco si converte è la forza che cede all’intelligenza. Un conflitto che si riflette nella scenografia, che ho elaborato al computer. Un palazzo del potere, tutto d’oro (“Salgo già del trono aurato”, canta Abigaille) che ricorda vagamente una corona o uno Zigurat, e il palazzo della cultura, una biblioteca. Uno di fronte all’altro, come in una megainstallazione o in una piazza metafisica».
Architettura d’abord...
«L’unica arte oggi davvero vitale. E leggera, trasparente, areodinamica com’è nel nostro tempo. Ma anche come omaggio all’arte teatrale italiana, alle cui basi ci sono i grandi architetti come Bernini».
Ma è vero che Leo Nucci-Nabucco entrerà a cavallo?
«Sì. Del resto, al centro della piazza ideale italiana non può che esserci una statua equestre».
Costumi?
«Costumi d’opera ma non d’epoca, ispirati da strutture semplici e astratte: il quadrato, il cerchio. Senza tempo. Non voglio più sentir parlare di “trasposizioni”. Io, al massimo, faccio traslochi. A teatro non esiste l’epoca. L’opera è sempre la stessa cosa: uno spettacolo del presente che serve a pensare al futuro. Ma che puoi fare solo se conosci il passato».
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