Vi è una scena, nel nuovo spettacolo di Robert Lepage, che sintetizza più di ogni altra, a nostro giudizio, in maniera simbolica, quello che l’autore ci vuole raccontare: una cantante, Marie, ha appena subito un’operazione al cervello, in seguito alla quale ha momentaneamente perso l’uso della parola, ma non del suono vocale, ed in questo stato (che viene chiamato afasia) la donna si esercita al computer dove registra i gorgheggi che le sue corde vocali emettono, disegnando i grafici con onde sonore che esprimono il suo lento ma progressivo rinascere. Ecco, in questa scena il messaggio che Lepage vuole trasmettere con Lipsynch raggiunge in maniera diretta lo spettatore: la voce, e quindi il suono, qui visualizzato ancor più che ascoltato, riesce ad esprimere più delle parole, l’intensità del nostro sentire. Il termine “Lipsynch”, infatti, indica sì il sincronismo delle labbra con cui il cantante si esibisce in playback, o anche quello del doppiatore cinematografico, ma, più semplicemente, è quello con cui la nostra voce segue il ritmo delle nostre parole.
Questo straordinario colossal teatrale (durata oltre 8 ore), opera del grande artista canadese, ha anticipato di una settimana l’apertura ufficiale dell’edizione 2010 del Teatro Festival Italia a Napoli, nella suggestiva location creata appositamente in quelli che furono gli stabilimenti della ex Birreria Peroni di Miano. L’ inizio dello spettacolo è stato preceduto da un’altra storia, quella raccontata degli ex operai della fabbrica, a cui il direttore artistico Renato Quaglia ha voluto giustamente dare voce sul palco, per esporre le vertenze sindacali ancora aperte, che gettano, purtroppo, un’ombra inquietante sulla festa per la cultura che rappresenta questo eccezionale evento.
Ritornando allo spettacolo, esso è composto da nove storie, che portano ognuna i nomi dei protagonisti, interpretati da altrettanti eccellenti attori di nazionalità diverse, che sono, nell’ordine, Rebecca Blankenship (Ada), Hans Piesbergen (Thomas), Fréderike Bédard (Marie), Rick Miller (Jeremy), Sarah Kemp (Sarah), Carlos Belda (Sebastian), John Cobb (Jackson), Lise Castonguay (Michelle), Nuria Garcia (Lupe). Nove storie, dicevamo, che ne racchiudono però tante altre, in un infinito caleidoscopio formato dagli incroci fortuiti di cui sono composte le vite dei personaggi, così come accade nella vita reale. Raccontare la trama di “Lipsynch” sarebbe impossibile quanto inutile, poiché il testo, a nostro avviso, rappresenta un pretesto per il raggiungimento di uno scopo teatrale che va al di là della fabula sic et sempliciter; le storie da cui essa è costituita, infatti, estrapolate e decontestualizzate dalla complessa struttura scenica, o impoverite dalle geniali quanto poetiche parole con cui sono costruiti i dialoghi, perderebbero qualsiasi significato, tanto che si potrebbero semplicisticamente ridurre alla trama di una soap, o, più nobilmente, ascriverle come mutuate dalla cinematografia di Lelouch (“Les Uns Et Les Autres” o “La Nuit Americaine”) come a quella di Almodovar (“Todo Sobre Mi Madre”) o Von Trier (“Dogville”). Invece, al di là della pur considerevole densità linguistica, lo spettacolo è nella sua messa in scena che esprime il suo vero, profondo valore, la sua essenza più considerevole. Il suono, il suo progredire, dal vagito del neonato, al canto, dall’emissione di parole quotidiane, a volte banali (come, d’altronde, è banale la vita, così come ci ricorda anche uno dei personaggi), fino ai rumori della strada, a quello delle macchine, o al rantolo silenzioso della morte, sono i veri protagonisti di un’opera teatrale maiuscola, intrisa di valori artistici e di ricerca teatrale e sociologica tali da restituire al pubblico una carica emozionale che certo teatro contemporaneo, purtroppo, spesso ci nega. Lepage non rinuncia al linguaggio del corpo, agli effetti speciali che lo caratterizzano da anni, al lirismo poetico di alcune citazioni quali la romanza di Górecki che apre lo spettacolo, o ai dotti rimandi all’arte michelangiolesca (impedibili il suggestivo paragone tra la struttura del cervello umano e la forma geometrica del particolare della creazione di Adamo nel Giudizio Universale, o la Pietà rovesciata che chiude l’opera) ma, soprattutto, non perde di vista la funzione del teatro, che più di qualunque altra arte è quella di trasmettere emozioni, di arrivare al pubblico, portarlo, grazie alla catarsi tragica che suscita l’assistere a storie di vita apparentemente comune, in un universo che solo i grandi autori teatrali, da Eschilo in poi, riescono a costruire, pieno di suggestioni e di emozionalità. I cinque calorosissimi minuti di applausi finali, accompagnati da una standing ovation, che hanno salutato i nove straordinari interpreti, ne tracciano l’evidente riuscita di intenti e aprono il Festival con un entusiasmo che mai finora aveva accompagnato le prime delle precedenti edizioni di questo che sta diventando, grazie all’impegno del direttore Quaglia e del suo staff, davvero, come era negli intenti del suo ideatore, l’ex ministro della cultura Francesco Rutelli, l’appuntamento più importante per il teatro in Italia, un teatro che parla una lingua universale, quello della vera Arte.