Teatro

Con Orfeo e Euridice, Muti saluta Rostropovich

Con Orfeo e Euridice, Muti saluta Rostropovich

Difficile trovare parole e suoni più ispirati per ricordare Rostropovich, se non quelli che Riccardo Muti al Comunale di Firenze ha indicato nel finale secondo dell’Orfeo ed Euridice di Gluck su testo di Calzabigi: «Vieni a’ regni del riposo, grande eroe, tenero sposo, raro esempio in ogni età». Sarebbe la lode dei trapassati alla potenza della musica e dell’amore di Orfeo, che ottiene nell’Ade la restituzione della sua Euridice, ma si è perfettamente adattata ad accompagnare il trapasso elisio del violoncellista, anche perché l’omogeneità di quel suono mezzopiano raggiunta in tal momento dal coro e dall’orchestra del Maggio Fiorentino ha vinto anche la proverbiale cattiva acustica della sala. Con l’esecuzione in forma di concerto dell’opera gluckiana, Muti ha ripreso a dirigere opere nel teatro ove fino a metà degli Anni 80 è stato direttore musicale: da quando la fece negli anni Settanta, qui nessuno l’ha più affrontata, d’altronde Muti ne è il massimo interprete. La sua lettura rappresenta la fusione ideale di parola, suono e azione drammatica che tanto stava cara agli autori. Dovettero tuttavia per motivi di corte (a Vienna nel 1762) mutare in lieto fine il mito, così che Euridice torna in vita e vive felice con Orfeo. Eppure il lutto della precedente morte e lo sforzo sovrumano del cantore per vincerla abitano gran parte dell’opera: ai lamenti d’Orfeo (la brava ancorché non omogenea Daniela Barcellona) risponde in eco una piccola orchestra lontana di archi e un clarinetto. Il cardine dell’opera gluckiana poi, il recitativo accompagnato che fa declamare musicalmente le voci sulle armonie cangianti dell’orchestra, non poteva trovare comprensione più autentica e interiorizzata. Quando Orfeo fatalmente si volta indietro verso Euridice (la debole Andrea Rost), l’amata canta Io manco, e Muti ha sottratto suono all’accordo come se questo mancasse, e poi Euridice canta Io moro, e Muti ha dissolto l’accordo successivo nel nulla del silenzio. Il mito orfico è davvero la celebrazione della potenza della musica, se grazie a questa il cantore tracio vince pure i «No!» gluckiani degli spiriti infernali, che attraverso il braccio di Muti non potrebbero essere più perentori. Varcate quelle soglie, la musica dei Campi Elisi ci è venuta incontro con una serenità luminosa, anche perché Muti è riuscito a far scandire il basso con una morbidezza viennese. E la tornitura levissima delle danze finali non avrebbe incatenato allo stesso modo l'orecchio in un'esecuzione scenica, in cui l'occhio vuole la sua parte. Si capirà, allora, il tripudio generale.