Tutto comincia da Elisabetta Pozzi. Da sei anni ha in testa Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Da sei anni sogna di mettere in scena il romanzo che lo stesso Bradbury ha riscritto per il teatro e che sarà pubblicato tra qualche giorno dalle edizioni Elliot di Roma. Ma per sei anni, niente. Finché, all’ultima Fiera del Libro, l’attrice incontra Luca Ronconi, gli parla del progetto, lo convince ad afferrare le briglie dell’impresa. Ed eccoci qui. Alle Fonderie Limone di Moncalieri Ronconi prepara il debutto del 21 aprile. Con la Pozzi agiscono nei personaggi principali Alessandro Benvenuti e Fausto Russo Alesi. Il terzetto è il veicolo di una metafora, forse di un incubo, che dal 1953 non ha smesso di accompagnare le generazioni, complice anche François Truffaut, che con Fahrenheit 451 realizzò nel 1967 il suo primo film internazionale e la sua prima pellicola a colori.
Il mondo di Fahrenheit 451 è, è stato, lo specchio ustorio di un futuro apocalittico. Il romanzo immagina un mondo pulito, ordinato, dominato dalla televisione, nel quale però è vietato possedere e leggere libri. Esiste anzi un corpo di vigili del fuoco addetto non a spegnere, ma ad appiccare incendi. Lavora di kerosene per trasformare i libri e le biblioteche in una folata di lucciole. Montag è uno di questi «militi del fuoco». Però Montag tradisce. Dopo avere incontrato Clarisse, conosce la malìa dei libri e comincia a fare quel che altri fanno in gran segreto: impara anche lui i testi a memoria, si trasforma anche lui in uomo-libro.
Quali suggestioni smuove questa materia in Luca Ronconi?
«Quando un’opera rientra in un alone proverbiale se non mitologico si carica di memorie anche ingannevoli. Quando ho letto il testo teatrale, l’ho confrontato con la somma delle mie memorie: il romanzo che non ho voluto rileggere, il film. Mi chiesi: che cosa faccio? Metto in scena la memoria del film? del romanzo? il testo così com’è?»
E ha scelto?
«La terza ipotesi».
Perché?
«Il tono messianico del romanzo sarebbe stato insopportabile alla rappresentazione. Battute del romanzo portate in scena sarebbero stati sermoni moralistici. Il film di Truffaut ha troppe svenevolezze sentimentali. Perciò ho optato per la commedia, con tutti i pregi e i difetti che ha la commedia, senza cercare di mascherare l’invecchiato».
Commedia e romanzo raccontano un tempo al futuro. Come si è posto dinanzi a questo problema?
«La narrativa può rappresentare il futuro, il teatro no. In più il romanzo ipotizza un tipo di futuro alla Verne. Se guardassimo tutto ciò con occhio retrospettivo forse cadremmo nel patetico».
Togliendo il futuro, che resta?
«Può rimanere non la profezia, ma la metafora».
Quale? La metafora della tv padrona della nostra vita?
«Nel romanzo abbiamo personaggi del tutto teledipendenti, è vero. Ma il fatto che la tv sia un elemento di istupidimento oggi è un luogo comune. Anche la storia del rogo preso come metafora funziona. “Un libro non letto è un libro che non esiste”: ecco la profonda verità che supera tutti i roghi. Del resto non apparteniamo più a un’epoca che brucia la carta stampata. Le nostre previsioni pessimistiche oggi appartengono ad un altro genere, sono di natura ecologica. Bradbury non ci pensava affatto. Nella sua commedia il futuro è asettico».
Il pompiere Montag si converte grazie a una donna.
«Anche in questo caso conviene allontanarci da Truffaut. Nel film abbiamo Oscar Werner e Julie Christie che interpreta due ruoli. C’è quindi un triangolo. Anche noi abbiamo un triangolo. Ma non è sentimentale, è pedagogico: un rapporto maestro-allievo».
Quindi lo spettacolo mostra delle relazioni.
«Considero Fahrenheit 451 un racconto di formazione. Montag viene catechizzato, alla fine fugge e arriva in un altro luogo, nel luogo in cui si può recuperare la memoria».
Si dice che tutti noi abbiamo cominciato a perderla, la memoria...
«Beh, è un tema che ci riguarda, anche se ritengo che sia più importante il tema dell’oblio. E’ sbagliato vedere una volontà politica nell’imposizione dell’oblio. Non è il nazismo. Invece è la richiesta di una maggioranza. Una maggioranza prescrive l’oblio. Questo è importante e interessante».
Lo spettatore troverà tutto questo nella commedia?
«Temo di no. L’entità e la gravità di questi temi non trovano grande riscontro. La commedia è piuttosto fragile. Si impadronisce di temi impegnativi ma li sviluppa in maniera alquanto approssimativa. Ma non si possono mettere in scena soltanto capolavori».
Come sarà la messinscena?
«Non prospetta un mondo ipertecnologico. L’elettronica che era il futuro oggi è il nostro elettrodomestico. Ciò detto, ci sono i momenti di spettacolarità, ci sono gli incendi, c’è il Segugio Meccanico, ci sono le pareti di televisori, ma tutto questo viene rappresentato in modo ingenuo, più da cartone animato che da effetto speciale. Cerco di rappresentare una favola, non un incubo».
Fonte: La Stampa
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