Al Teatro Cucinelli di Solomeo, sabato 23 gennaio, alle 21, la Stagione di Prosa prosegue con La Festa, uno spettacolo di una delle voci più originali del teatro italiano, Spiro Scimone. Un testo importante che la Comèdie Française ha deciso di inserire all’interno del suo repertorio, vincitore del Premio Candoni Arta Terme per la nuova drammaturgia.
Diretti da Gianfelice Imparato, Francesco Sframeli, Spiro Scimone e Gianluca Cesale raccontano i festeggiamenti per i trent’anni di matrimonio di una coppia. Un padre, una madre, un figlio. Una giornata qualsiasi, uguale a tutte le altre, scandita dal gioco crudele delle reciproche insofferenze. Si festeggia nello spazio geometrico di una cucina, il chiuso contenitore di quel microcosmo familiare. Dove ciascuno dei tre personaggi recita la propria parte. La madre assillante che accentua il suo ruolo di vittima. Il padre che fa la voce grossa per mascherare la propria debolezza e dipendenza. Il figlio protervo, che se ne sta accucciato a muso duro, è diventato lui il vero padrone di casa, anche perché è lui che mette i soldi, oscuramente guadagnati.
Il gioco è teso, crudele, apparentemente devastante. Con una continua nota di comicità. La madre rinfaccia. Il padre fa il gesto di uno schiaffo che è incapace di dare. E il figlio, cosa fa il figlio? Il figlio non fa niente, se ne sta accucciato in silenzio e quando è stanco di domande esce fuori. Ma c’è un limite nel gioco oltre cui non può andare. La necessità di non arrivare alla rottura, perché il giorno dopo si possa riprendere da capo, con le stesse parole. Lo stesso rito. La crudeltà sembra così rivolta piuttosto allo spettatore che è costretto a riflettersi nello specchio deformante che ha di fronte. Inquietante proprio perché obbliga a interrogarsi su quale sia la forma vera rispecchiata da questo inesorabile rito familiare.
La festa è il primo testo scritto da Spiro Scimone in lingua italiana, dopo i due precedenti in dialetto messinese, Nunzio e Bar, di cui è stato anche interprete efficace, sempre in coppia con Francesco Sframeli. Ma è un italiano molto meridionale, il suo, nella costruzione della frase come nella cadenza impressa dagli interpreti. Sono dialoghi brevissimi, fatti di battute di poche parole. Con un uso molto musicale, quasi jazzistico, della frase e della parola, su un ritmo sincopato che mette in evidenza le frequenti ripetizioni e variazioni di un medesimo tema.
Ma ripetizione e variazione portano anche a esplorare tutte le possibilità offerte dalle parole, la loro necessità. Sono le armi affilate da una lunga esperienza con cui si confrontano i tre personaggi in scena, in un continuo rinfacciarsi episodi distorti e un passato forse inventato. Le parole ingannano e sono usate per ingannare, soprattutto se stessi, perché a forza di ripeterle, quelle battute tormentosamente ossessive, ci si può convincere che siano vere. E l’introduzione di un terzo personaggio, rispetto ai lavori precedenti rigorosamente a due, dove però il terzo era una presenza invisibile ma incombente, offre a Scimone uno strumento in più per modulare le sue variazioni, giacché la parola può assumere un valore diverso se si rispecchia in un diverso interlocutore.