Lunedì 3 aprile la Stagione di Prosa del teatro Caio Melisso di Spoleto si conclude con MI VOLEVA STREHLER, un testo esilarante, pieno di graffiante ironia, interpretato da Maurizio Micheli.
Lo spettacolo, per esigenze della Compagnia, sostituisce Il Contrabbasso precedentemente annunciato.
Si tratta di un cult che dal 1978 mantiene immutate forza comica e satira, avendo totalizzato più di 1000 repliche. Un esempio di teatro-cabaret ineguagliato, tanto nella misura (due atti di 50’ e 40’), quanto nella composizione. Infatti lo spettacolo gioca su diversi piani mascherando dietro un’apparente facilità, una riflessione profonda sull’arte dell’attore. La storia narra, col pretesto di un provino che un attore di cabaret deve sostenere davanti a Strehler e che gli aprirà le porte del grande teatro, uno spaccato del teatro italiano a cavallo tra gli anni ’60 e ’70.
Assistiamo così alla scoperta del “teatro alternativo” e all’impegno politico tipo Brecht, al racconto de “la prise de l’Odéon” ai tempi del ’68 e alle imitazioni nostrane dei grandi innovatori di quell’epoca: il Living, Grotowski, il Terzo Teatro, rese ancora più comiche dallo stridore, forse solo apparente, con la condizione reale del giovane attore narrante.
“Ho avuto attori bravissimi – scrive Umberto Simonetta, autore del testo insieme a Micheli - ma non di grosso richiamo (almeno non lo erano ancora quando recitavano con me, negli anni tra il ’78 e l’83, dopo alcuni di loro lo sono diventati). Ma i teatri si sono riempiti ugualmente e non solo il piccolo “Gerolamo” di Milano che dirigevo in quel periodo. Il pubblico dunque veniva per assistere al lavoro, probabilmente attratto da qualche autorevole recensione, magari da un titolo indovinato, dal parere favorevole di amici che l’avevano già visto o da chissà che altro. Appena si apriva il sipario (quando c’era il sipario) lo spettatore si trovava così a dover fare prima di tutto conoscenza con l’attore in scena: doveva fissarlo, misurarlo, lasciatemi dire annusarlo, decidere se gli era o non gli era simpatico, decidere se gli avrebbe mai concesso l’autorizzazione a farlo ridere o, come direbbero altri, a inoltrargli il messaggio comico. Questa spietata perlustrazione può durare un attimo oppure un secolo ma qualsiasi sia la sua durata per l’attore e per l’autore sarà sempre eterna. Ho avuto la fortuna di avere degli attori che riuscivano a ottenere il lasciapassare con grande celerità: ma ho la solida convinzione di avergli fornito ogni volta il materiale idoneo a facilitargli e di molto il compito. Con grande emozione con grande gioia ho visto il pubblico abbozzare un sorriso, poi sorridere con maggior decisione, ridere poi e sghignazzare infine senza ritegno.”
Lo spettacolo, per esigenze della Compagnia, sostituisce Il Contrabbasso precedentemente annunciato.
Si tratta di un cult che dal 1978 mantiene immutate forza comica e satira, avendo totalizzato più di 1000 repliche. Un esempio di teatro-cabaret ineguagliato, tanto nella misura (due atti di 50’ e 40’), quanto nella composizione. Infatti lo spettacolo gioca su diversi piani mascherando dietro un’apparente facilità, una riflessione profonda sull’arte dell’attore. La storia narra, col pretesto di un provino che un attore di cabaret deve sostenere davanti a Strehler e che gli aprirà le porte del grande teatro, uno spaccato del teatro italiano a cavallo tra gli anni ’60 e ’70.
Assistiamo così alla scoperta del “teatro alternativo” e all’impegno politico tipo Brecht, al racconto de “la prise de l’Odéon” ai tempi del ’68 e alle imitazioni nostrane dei grandi innovatori di quell’epoca: il Living, Grotowski, il Terzo Teatro, rese ancora più comiche dallo stridore, forse solo apparente, con la condizione reale del giovane attore narrante.
“Ho avuto attori bravissimi – scrive Umberto Simonetta, autore del testo insieme a Micheli - ma non di grosso richiamo (almeno non lo erano ancora quando recitavano con me, negli anni tra il ’78 e l’83, dopo alcuni di loro lo sono diventati). Ma i teatri si sono riempiti ugualmente e non solo il piccolo “Gerolamo” di Milano che dirigevo in quel periodo. Il pubblico dunque veniva per assistere al lavoro, probabilmente attratto da qualche autorevole recensione, magari da un titolo indovinato, dal parere favorevole di amici che l’avevano già visto o da chissà che altro. Appena si apriva il sipario (quando c’era il sipario) lo spettatore si trovava così a dover fare prima di tutto conoscenza con l’attore in scena: doveva fissarlo, misurarlo, lasciatemi dire annusarlo, decidere se gli era o non gli era simpatico, decidere se gli avrebbe mai concesso l’autorizzazione a farlo ridere o, come direbbero altri, a inoltrargli il messaggio comico. Questa spietata perlustrazione può durare un attimo oppure un secolo ma qualsiasi sia la sua durata per l’attore e per l’autore sarà sempre eterna. Ho avuto la fortuna di avere degli attori che riuscivano a ottenere il lasciapassare con grande celerità: ma ho la solida convinzione di avergli fornito ogni volta il materiale idoneo a facilitargli e di molto il compito. Con grande emozione con grande gioia ho visto il pubblico abbozzare un sorriso, poi sorridere con maggior decisione, ridere poi e sghignazzare infine senza ritegno.”