E’ in programma sul palcoscenico del Teatro Municipale di Piacenza (23-24 aprile) “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht, prodotto dal Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia e dal Teatro de Gli Incamminati con la regia di Antonio Calenda.
In questo dramma, in cui è Franco Branciaroli a interpretare il ruolo del protagonista, si sviluppano i temi, molto attuali, del rapporto fra l’uomo e il suo senso di responsabilità, la ricerca e l’etica, la scienza e il potere.
Composto fra il 1938 e il 1943, il testo costituì sempre un culmine nella produzione brechtiana: una sorta di suo “testamento spirituale” sia sul piano del lavoro teatrale, che su quello del contenuto morale.
«Per comprendere a fondo il senso e le peculiarità di questo testo – ha dichiarato il regista - è necessario risalire alle grandi motivazioni per cui fu creato. Impossibile non correlare l’ultima definitiva versione di "Vita di Galileo" (in cui l’autore condanna l’abiura del protagonista) con l’atteggiamento di certi scienziati contemporanei che, proprio in quegli anni, si erano resi indirettamente complici del disastro di Hiroshima, mettendo a disposizione della politica i loro studi sulla scissione dell’atomo. Impossibile non ricordare le osservazioni di Brecht sulla scelta di Robert Oppenheimer e di quei fisici che, pur di non cedere alle richieste di un governo dedito alla guerra, rinunciarono a incarichi di prestigio, convinti che “Scoprire qualcosa fosse diventato un’ignominia”».
Argomenti che già nel 1963 sollecitarono il genio di Giorgio Strehler inducendolo a creare, al Piccolo Teatro di Milano, uno dei suoi più celebri capolavori.
Brecht ci ha donato quindi un testo per certi aspetti profetico, turbato dall’intuizione dei disastri che l’uso distorto della scienza avrebbe procurato all’umanità.
“Vita di Galileo” percorre la parabola del grande scienziato pisano dal tempo dell’insegnamento a Padova fino agli ultimi anni vissuti forzatamente in “ritiro” a Firenze, sotto la severa sorveglianza della Santa Inquisizione: un’esistenza densa di entusiasmi, affermazioni, sconfitte, intuizioni. La rivelazione più clamorosa riguarda il “modello copernicano”: non è Galileo ad intuirlo per primo, ma è lui che per primo riesce a dimostrarlo scientificamente, grazie proprio all’uso di quel telescopio di cui gli era stata impropriamente attribuita l’invenzione. Le conseguenze di tale dimostrazione sono dirompenti: la Chiesa non è disposta ad abbandonare la teoria tolemaica del geocentrismo, e l’Inquisizione processa Galileo imponendogli una scelta fra le più laceranti. Restare fedele a se stesso, agli allievi, accondiscendere fino in fondo al demone della scienza e ad essa sacrificare la vita, oppure salvarsi, abiurando le nuove teorie? Lo scienziato decide per la salvezza. E se nella prima edizione del dramma Brecht sembra scorgere in ciò il tentativo di continuare segretamente a servire la scienza e la ricerca, nelle rielaborazioni successive del suo dramma egli appare invece sempre più determinato a condannare la codardia con cui il protagonista sottomette la scienza alla politica.
«Non credo che la scienza possa proporsi altro scopo che quello di alleviare la fatica dell’esistenza umana – scrive infatti l’autore nelle sue note all’opera – . Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre ed ogni nuova macchina non sarà che fonte di nuove tribolazioni per l’uomo. Un uomo che contravviene a questi principi, che rifiuta la responsabilità delle sue ricerche o addirittura le ritratta abiurando, non può essere tollerato nei ranghi della scienza».
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