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IL GABBIANO

Il Gabbiano, o la crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo

Il Gabbiano
Il Gabbiano

Disorientamento è la sensazione che si prova negli attimi che precedono l’apertura del sipario sull’allestimento del Gabbiano di Anton Čechov, diretto da Marco Sciaccaluga.

Disorientamento è la sensazione che si prova negli attimi che precedono l’apertura del sipario sull’allestimento del Gabbiano di Anton Čechov, diretto da Marco Sciaccaluga e prodotto dal Teatro Nazionale di Genova: le musiche, a cura di Andrea Nicolini, introducono il pubblico nell’inquieta atmosfera fin de siècle cechoviana.

Quando il sipario si apre, svela subito il centro nevralgico del dramma: il lago, presso le cui rive si consumano le inutili e tormentate vicende dei protagonisti.

Immobilità fisica e morale

Nella visione d’insieme della scenografa Catherine Rankl, un fondale, avvolgente nella sua semplicità, un gazebo con la funzione di rudimentale ribalta e un pontile sono gli elementi attraverso i quali esprimere l’immobilità fisica e morale di vuote esistenze non-vissute in una tenuta di campagna.

Un ulteriore elemento da non sottovalutare è il disegno luci di Marco D’Andrea, con numerose piantane posizionate sul palcoscenico – sia nel primo sia nel secondo atto – come a voler focalizzare e illuminare l’insensato non-agire scenico dei protagonisti in un perimetro preciso.


L’affresco corale di un’umanità sconfitta

Il tormentato Konstantin (Francesco Sferrazza Papa) ama perdutamente la giovane Nina (Alice Arcuri), a sua volta ammaliata dal fascino del maturo scrittore Trigorin, amante di Irina Arkadina, attrice d’altri tempi e madre di Konstantin. Attraverso l’intreccio di tali vane e insane passioni vengono anticipati temi e istanze del Novecento: il dibattito sulle nuove forme d’arte, il rimpianto per un’esistenza mai vissuta fino in fondo, l’ineluttabilità della morte, espressa con cinico pragmatismo dal personaggio del medico, interpretato da Roberto Serpi. Federico Vanni, nel ruolo dell’insoddisfatto Sorin, si conferma un efficace interprete delle istanze cechoviane, come ha già avuto occasione di dimostrare calandosi nei panni di Lopachin in un recente allestimento del Giardino dei ciliegi, prodotto dal Teatro dell’Elfo.



Stefano Santospago (Trigorin) fa capolino in sordina sulla scena e, inizialmente, i suoi punti di forza risultano gli sguardi e i piccoli gesti, coerenti con un personaggio dall’animo indolente e impassibile.
Nel secondo atto, l’incomunicabilità umana si esprime nella sua esemplare non-interazione con Elisabetta Pozzi (Irina), disinvolta, ma mai eccessiva nel ruolo di una diva che vive nella granitica illusione del proprio passato.

Rispetto al disorientamento iniziale, l’allestimento diretto da Marco Sciaccaluga si rivela scorrevole e privo di orpelli, mantenendosi fedele alla versione integrale del dramma (1895), precedente alla censura zarista.

Visto il 12-02-2019
al Carignano di Torino (TO)