Decima opera mozartiana, Il re pastore è un “dramma pastorale” dai risvolti allegorici, composto nella primavera 1775 su versi di Metastasio già intonati da innumerevoli compositori.
Subito dopo Il sogno di Scipione al Teatro Malibran, un altro lavoro giovanile di Mozart approda per la prima volta sulle scene veneziane, ed è Il re pastore. Stavolta però al Teatro La Fenice. Unico per entrambe il direttore, Federico Maria Sardelli, specialista del repertorio barocco.
Decima opera mozartiana, Il re pastore è un “dramma pastorale” dai risvolti allegorici, composto nella primavera 1775 su versi di Metastasio già intonati da innumerevoli compositori, fra cui Hasse e Gluck. Lo scopo, allietare la visita a Salisburgo dell'arciduca Massimiliano d'Asburgo, figlio di Maria Teresa d'Austria.
Capolavoro “minore” ma non troppo
Condensato da tre a due atti il testo originale, Il re pastore di Mozart venne eseguito il 23 aprile 1775 nella Rittersaal del Palazzo Arcivescovile, senza apparato scenico, quale deliziosa festa teatrale dal sapore rococò. Lo strumentale è ormai quello del Mozart più maturo: fiorente, variatissimo, eloquente, vigoroso.
I recitativi, profondi ed accurati; le dodici arie gareggiano in bellezza ed espressività, sino ai culmini musicali dell'aria di Alessandro ”Se vincendo”, con flauto obbligato; di quella tenerissima di Tamiri “Se tu di me fai dono”, delle due di Aminta “L'amerò, sarò costante” con le sue volute violinistiche, e la pirotecnica ”Aer tranquillo e dì sereni”, la cui solare melodia ritroveremo in apertura del Concerto per violino KV 216.
Un direttore squisitamente mozartiano
Dirige Federico Maria Sardelli, come già detto: e non si potrebbe desiderare guida più brillante, colorita, elegante, dinamica. Direzione che esalta ogni gemma, sia strumentale, sia vocale; e ci concede di godere tutti i da capo. L'Orchestra della Fenice trova subito con lui piena intesa, e lo asseconda nella felice esplorazione di questa gemma “minore” (ma non poi tanto) del catalogo mozartiano, dove il fortepiano di Roberta Paroletti brilla per duttilità.
Felice poi la scelta del cast, che fa perno sul luminoso Aminta del soprano Roberta Mameli, reso in ogni sfaccettatura con una voce fresca, dal colore gradevole, e con tecnica adeguata; la brava Elisabeth Breuer presenta la ninfa Elisa come una fanciulla tenera e trasognata; Alessandro è impersonato con nobiltà d'accento da Juan Francisco Gatell; il tormentato Agenore è visto con musicalità e giusta dose di veemenza da Francisco Fernández-Rueda; la trepidante Tamiri è resa con sapidi tratti di delicata melanconia da Silvia Frigato.
Come movimentare un intreccio statico
Nel ripensare in modo nuovo la drammaturgia di questa serenata dai risvolti celebrativi, la regia di Alessio Pizzech procede con intelligente fantasia: scansa ogni riferimento aulico, e trasforma Aminta in un odierno fricchettone che vive spensierato in mezzo ai campi. Ignaro d'essere figlio di re, abita con la sua Elisa una corriera sgangherata, pago della compagnia del suo gregge e dei suoi libri.
Diventerà re dopo aver tentato la fuga, dopo essersi inerpicato sul suo albero, a mo' di estremo rifugio; lo fa solo per richiamo al dovere, restando però in cuor suo un outsider. Quanto al condottiero macedone, Pizzech ce lo descrive come un despota altero ma un po' stolido, con una schiera di sòdali tutti uguali, servili e plaudenti. Sono due tra le molte idee ben centrate, all'interno d'una regia estrosa e geniale, carica di belle invenzioni; e che riesce a rendere vitale una trama di per sé povera di accadimenti, intrigando lo spettatore con un'accorta teatralità. Gli tengono spalla le lineari soluzioni scenografiche di Davide Amadei ed i bei costumi di Carla Ricotti, che giocano attorno un antico 'modernizzato'.