Una sfida rivolta al pubblico – definito il “requisito di sistema necessario” alla rappresentazione – così come agli stessi attori. Uno spettacolo intrigante e ben riuscito.
Lo stato d’animo prevalente con cui ci si accinge ad assistere a It’s app to you è senza dubbio la curiosità. Curiosità per quello che viene presentato come un “videogioco a teatro”, due mondi che sembrano in apparenza inconciliabili.
Lo spettacolo messo in scena dalla compagnia Bahamut, nell’intimo e accogliente Alta Luce Teatro di Milano, pare dunque una sfida rivolta al pubblico – definito il “requisito di sistema necessario” alla rappresentazione – così come agli stessi attori, coinvolti in una vicenda sempre in bilico fra reale e virtuale. Il tutto partendo da un tòpos della letteratura gialla: un cadavere, un caso di omicidio da risolvere.
Algoritmo e il solipsista
Una donna giace a terra, è stata appena uccisa. Non ha un nome, è identificata solo da un numero: 46. Algoritmo, la mente virtuale che ne indirizza i pensieri, i sentimenti e le azioni come un dominus assoluto, e che le presta persino la voce, spinge uno spettatore (presunto) a scaricare l’applicazione che lo fa diventare parte integrante del videogioco, assegnandogli il nome di 47. Il suo compito è quello di scoprire l’assassino di 46 e di ucciderlo, un compito che può essere assolto superando una serie progressiva di livelli del gioco, sempre sotto il controllo onnipotente di Algoritmo.
47 è un solipsista, convinto che la realtà dipenda da lui e dai suoi comportamenti, e in questo si caratterizza come un alter ego in carne e ossa di Algoritmo. Ma quanto è reale? E quanto davvero libero? Mentre la vicenda si snoda e gli indizi si moltiplicano, il giocatore, che per sua natura dovrebbe essere padrone delle proprie scelte e decisioni, diventa il semplice ingranaggio di un meccanismo che progressivamente lo fagocita. Il suo ingresso nella virtualità lo porta a un complice avvicinamento, del tutto umano, a 46. La risoluzione del caso, tuttavia, può avvenire soltanto attraverso un rovesciamento delle parti e dei ruoli, a ulteriore testimonianza dell’impossibilità di tracciare un limite credibile tra finzione e realtà.
Una scena da “immaginare”
La scena è spoglia: in un angolo il personaggio di Algoritmo detta i ritmi della rappresentazione, che mantengono desta l’attenzione dello spettatore anche grazie a qualche trovata che suscita il sorriso. Nel vuoto del proscenio gli attori sono abili nel “far vedere” al pubblico la stanza fittizia in cui si svolge l’azione e gli oggetti che ne fanno parte, come la porta d’ingresso o il lampadario contro cui la protagonista sbatte regolarmente la testa. Il virtuale si umanizza attraverso una messa in scena dinamica e spesso divertente, caratterizzata da un testo vivace ma al tempo stesso denso di significati e di digressioni filosofiche.
Interpreti del virtuale
La difficoltà di rappresentare con efficacia un universo immaginario viene superata brillantemente dagli attori grazie a una convincente prova di tutti i personaggi. Eccellente Paola Giannini, una sorta di credibilissima Lara Croft che per tutto lo spettacolo recita in playback “doppiata” dalla voce maschile di Algoritmo, con una gestualità sempre in sincrono con i comandi dell’applicazione.
Altrettanto incisivi Andrea Delfino e Leonardo Manzan, il cui spigliato confronto dialettico riesce a toccare la tematica profonda del libero arbitrio dell’uomo inducendo lo spettatore a riflessioni tutt’altro che scontate. Spettacolo intrigante e ben riuscito.