Lo spettacolo diretto da Nicola Zavagli porta in scena Kobane calling, la nota graphic novel di Zerocalcare. Così il fumetto dell’artista romano, diventa una pièce teatrale che racconta il suo viaggio al confine tra la Turchia e la Siria.
Lo spettacolo diretto da Nicola Zavagli porta in scena Kobane calling, la nota graphic novel di Zerocalcare. Così il fumetto dell’artista romano, diventa una pièce teatrale che racconta il suo viaggio al confine tra la Turchia e la Siria.
Dopo oltre centomila copie vendute Kobane calling ha preso corpo sul palcoscenico e ha iniziato un fortunato tour nei principali teatri italiani. L’itinerario ricalca quasi lo stesso viaggio intrapreso e raccontato dall’autore, il noto fumettista romano Michele Rech, in arte appunto Zerocalcare. Il regista Nicola Zavagli dirige dieci attori professionisti, insieme ai giovani attori della compagnia Teatri d’imbarco, per portare in teatro una guerra lontana e silenziosa, forse non troppo chiacchierata, per viverla dall’interno con un occhio critico, meno giornalistico e più umano.
Una guerra narrata in un non-reportage
“Quando senti RATATATA è ISIS. Quando senti TUM.TUM.TUM. siamo noi.”
“E SBOOOM?”
“SBOOOM dipende. Fuoco e poi SBOOOM, è americani. SBOOOM e basta è Isis.”
In sostanza per distinguere i buoni dai cattivi ci si deve affidare all’onomatopea. Poche battute, brevi e incisive, ma anche lunghi “pipponi”, come li definisce lo stesso autore del fumetto, per introdurre e raccontare la guerra e la resistenza all’Isis da parte di un Kurdistan troppo poco presente nella cronaca internazionale e nei maggiori sistemi e canali d’informazione. Una questione di nicchia quella che uccide e devasta ogni cosa al confine turco-siriano? Può darsi.
Certo è che l’artista del quartiere romano di Rebibbia si proclama ben lontano da qualsiasi tecnica giornalistica, nonostante il conflitto in questione venga narrato tecnicamente sotto forma di reportage. Così sembrerebbe anche per Kobane calling on stage, viste le tavole della graphic novel scorrere sul fondale, diapositive di una scenografia perfettamente funzionale e concisa.
Lo spettacolo scorre in modo dinamico, mentre il bravissimo Lorenzo Parrotto che interpreta lo stesso Zerocalcare, si destreggia tra valige, tende, accampamenti, deserti e quartieri popolari romani. Notevoli anche i due compagni di viaggio del protagonista, Massimiliano Aceti e Luigi Biava.
Con loro si rafforza la romanità e i suoi giochi linguistici, ma incarnano anche allegoricamente l’amicizia e la comunione di un ideale senza cui forse i viaggi del fumettista non sarebbero stati gli stessi. Ottime anche le interpretazioni di Francesco Giordano, imponente nei suoi ruoli sempre al confine tra le due culture e Carlotta Mangione, simpaticissima nei panni della madre, un po’ chioccia e un po’ svampita, del protagonista; è d’obbligo citare l’Armadillo, lo stano animaletto, l’amico immaginario sempre presente nei fumetti di Zerocalcare, sua firma immancabile, che assume la forma di un enorme e pesante copricapo.
Uno sguardo sul mondo da Rebibbia
Lo spettacolo non è solo un documentario teatrale, sebbene per molti possa assumere principalmente questa forma, bensì un racconto, una fotografia di un conflitto che si desidera far comprendere, piuttosto che semplicemente conoscere ad una cerchia più ampia. Tale comprensione vuole riguardare le ragioni della guerra, la cultura di popoli apparentemente lontani dal nostro ma in realtà molto vicini al senso comune di umanità, pace, fratellanza.
L’obiettivo di questa operazione teatrale è facilitato sicuramente dalla lettura agevole del fumetto che alterna suoni e parole che hanno la bellezza e l’agevole comprensibilità del romanesco a complesse riflessioni che, tuttavia, non trascendono mai l’umorismo caratteristico dell’opera. In questo è bravissimo il protagonista Lorenzo Parrotto, cui calza perfettamente il ruolo di Zerocalcare e la sua doppia anima ironica e riflessiva. Il suo romanesco sottolinea l’attaccamento dell’autore al quartiere romano di Rebibbia, reso assai umoristico in più punti dello spettacolo, come a portare la bandiera di un nazionalismo di quartiere.
Per contro vi è poi lo sguardo al Medio Oriente da parte della periferia romana, tra centri sociali a Testaccio e accampamenti al confine turco-siriano, tra madri apprensive e donne-soldato. In particolare, è molto apprezzabile la scelta registica di sottolineare la questione femminile curda; ciò da modo allo spettatore di apprezzare non solo una dimensione più umana, quasi materna, del conflitto ma anche la forza delle donne e più in generale di un popolo che ancora crede in qualcosa per cui valga la pena di lottare.
Alla fine della guerra la preghiera da parte di un sopravvissuto di osservare bene l’orrore provocato dalle bombe dell’Isis, di non rimuovere troppo presto le macerie e i cadaveri vuole essere un monito per non dimenticare, per non far pensare all’Occidente che si sia semplicemente chiusa una singola e triste pagine della storia contemporanea internazionale. L’orrore della guerra, a prescindere dalla potenza mediatica che riesce a provocare, lascerà per sempre i suoi segni.