Dai quadri di Botero, una miniera di spunti. L'idea è venuta al regista venezuelano Victor García Sierra, che vi ha intravisto una vera miniera di spunti visivi.
L'elisir d'amore è un vero invito a nozze per creatori fantasiosi. C'è chi l'ha inserito tra i palazzoni di una città (Madrid 2006), chi mette lillipuziane figurine in un campo di grano (Losanna 2011), chi trasporta la storia nel Far West, con Dulcamara stregone sioux (Baden Baden 2012), chi ricrea un incantato mondo di fiaba, come fece Ivan Stefanutti nel 2003. Proprio in questo medesimo Teatro Verdi di Trieste, dove ora il capolavoro di Donizetti riappare in un allestimento varato da Nausica Opera International, e che trae ispirazione dai quadri dedicati da Fernando Botero al rutilante mondo del circo.
Dai quadri di Botero, una miniera di spunti
L'idea è venuta al regista venezuelano Victor García Sierra, che vi ha intravisto una vera miniera di spunti visivi. Al centro della scena troneggia il telone circense immaginato dal celebre pittore colombiano, con il suo contorno di eclettici artisti e d'una variopinta folla paesana. Ognuno vestito, su figurini di Marco Guion, come i 'rotondi' e buffi personaggi di quei quadri, dallo sguardo velato di sottile melanconia.
L'en plein finale lo realizza una regia leggera, ironica, vorticosa, che caratterizza ogni singolo personaggio, anche quelli minori, vivendo di tante divertenti trovate. Un allegro tripudio di colori e di luci – queste disegnate da Stefano Gorreri - che suscita inevitabilmente l'entusiasmo del pubblico triestino. Lo spettacolo in verità è non nuovo, essendo nato a Busseto tre anni fa, e poi approdato a Lima, Siviglia e Tbilsi. Ma la sua corsa, forse, non si fermerà qui.
Il parterre di interpreti
A presiedere musicalmente è stato convocato il direttore sloveno Simon Krečič, il quale sfortunatamente non entra in sintonia con la travolgente vivacità della scena. La sua concertazione difatti appare parecchio deludente: grigia, avara e dalla pignoleria metronomica. E senza fantasia e creatività. Senza contare come qualche volta perda di vista il palcoscenico, abbandonando i cantanti a sé stessi. Anche l'Orchestra del Verdi, priva di sollecitazioni, procede un po' svogliatamente, mentre il Coro, impegnato in piccole miniature recitative, per fortuna ci regala una prova brillante.Cast all’altezza
Nel cast, quattro giovani ed un veterano. Francesco Castoro, promettente tenore lirico, centra bene quella vena di remissiva malinconia che intride la figura tenera e naȉf di Nemorino: figura che risulta musicalmente appassionata e vibrante, ben controllata nel fraseggio, attorialmente ben ritratta.
Il soprano Claudia Pavone ci presenta un'Adina squisitamente civettuola ed attraente, dal carattere spontaneo e pieno di verve, nella quale trovano spicco un timbro fresco, morbido e luminoso, ed un dominio dei mezzi e della scena ottimali. Bruno de Simone – un sapido, sornione Dulcamara - sopperisce ad un leggero declino vocale con l'esperienza di una lunga, brillante carriera, e con quella carica di sottile humour – alieno da eccessi caricaturali - che rendono così peculiari le sue interpretazioni comiche.
Per il baritono coreano Julian Kim valgono osservazioni contrapposte: alle cospicue doti vocali – colonna di fiato salda e generosa, suono tondo e bronzeo – non corrisponde sempre l'opportuna sobrietà interpretativa, così che il suo Belcore – dimentico di cosa sia il belcanto – pecca d'esuberanza debordando volentieri nella più grottesca macchietta. Apprezzabile infine la fresca Giannetta di Rinako Hara. Nel secondo cast figurano Martin Sušnik, Olga Dyadiv, Dario Giorgelè, Enrico Marrucci.