Il testo di Schnitzler è uno spietato e ironico apologo sulla fisiologia del rapporto di coppia; lo scrittore austriaco con il lucido sadismo dell’entomologo notomizza il rapporto amoroso mettendone alla berlina le ipocrisie, le menzogne, le perversioni. Ciò premesso, Girotondo è un testo molto semplice dal punto di vista strutturale: si tratta di una serie di siparietti erotici legati tra di loro, dal punto di vista diegetico, dalla presenza in ciascuno di essi di uno dei due personaggi protagonisti della scenetta immediatamente precedente. Ne viene fuori una sapida concatenazione adulterina, che di osceno ha solo la logica combinatoria di cui è scaturigine più che il fatto che ciascun siparietto (tranne l’ultimo… forse) si concluda con la consumazione di un atto sessuale.
L’adattamento di Mario Gelardi e la regia di Carlo Caracciolo, non si sa bene per quale motivo, alterano l’algebrica sequenzialità narrativa del testo di partenza, operando una ricomposizione degli episodi, debitamente attualizzati, che di fatto destruttura la congruità tematica e dialettica dell’opera. Ne viene fuori un insensato pastiche di schermaglie amorose, troppo spesso abbandonato all’estro macchiettistico degli inesperti attori. Una sveglia con le pile scariche che stenta a mantenere serrati i tempi scenici. A nulla serve aver scelto una scenografia essenziale: una composizione di tavoli bianchi montati su ruote che dovrebbero adombrare, come un folle e abbacinante tetris gigante, le geometrie del rapporto tra i sessi. Qualcuno in sala ride, qualcun altro sbava sul generoso décolleté e sugli slip di qualche attrice. In fondo, nel dopocena una cosuccia leggera, postprandiale ci sta bene sempre. In sostanza 360° Girotondo si riduce ad un balletto fatto di smorfiette, esasperati cliché tardo ottocenteschi in sedicente ripresa parodica, una irritante concertazione di sospiri e risolini da vaudeville: un’emorragia cinetica sostanzialmente sterile.
L’occasione di questa messa in scena offre lo spunto per una considerazione più generale sul teatro dei giovani, ovvero agito da giovani attori, autori, registi: esso va senz’altro incentivato, questo è indubbio, ma è altrettanto indubbia l’urgenza di una riflessione sullo stato dell’arte, come suolsi dire. Una riflessione che sia, al contempo, una provocazione, poiché il problema etico ed estetico che inevitabilmente si affaccia alla mente quando ci si confronta con questa realtà spettacolare è di non poco peso, verbi gratia: ne abbiamo davvero bisogno? Davvero abbiamo bisogno di tutti questi attori, di questo stuolo di pertichini con il pallino della recitazione? Di questa mandria dilettantistica che si muove come un elefante in un magazzino di porcellane? Il vecchio latifondo ancien régime ha affossato l’economia agricola del sud nei secoli passati; l’incapacità della grassa nobiltà terriera di sostituire alla vieta e infruttuosa coltivazione estensiva una più frugifera e aggressiva coltivazione intensiva dei terreni, se da un lato ha salvaguardato la salute della terra stessa, dall’altro ha però ritardato di molto l’innovazione in campo agricolo con conseguenze nefaste per i livelli di produzione pro capite. L’innovazione e il progresso si fondano inevitabilmente sulla crudeltà, intesa come rigore e disciplina, come rigorosa applicazione della tecnica. A nulla serve lasciare che gli aspiranti attori crescano liberamente in estensione, creando un diabolico rapporto inversamente proporzionale tra qualità recitativa e offerta lavorativa, favorendo, inoltre, in tal guisa, un consumo sempre più digestivo e culinario del teatro che finisce con il somigliare ogni giorno di più a un Mcdonald’s (vedi Il clamoroso successo di Dignità autonome di prostituzione) più che ad una fucina di mondi possibili. Le colture intensive sono più fruttuose perché richiedono più risorse e più cure, necessitano di investimenti costanti e di una crudeltà tecnica senza pari.
Di Dario Migliardi