Il teatro di cui si fa latore Lepage è unico nel suo genere.
Intanto per l'impiego tecnico, le scenografie che miniaturizzano edifici a più piani (quello nel quale abitava il regista-perfomer nell'infanzia), l'impiego delle videoproiezioni (a restituire gli interni dell'edificio in scala, o a riproporre materiali d'archivio), della webcam, la cui immagine ripresa è reintegrata come apparato scenico o, ancora, la grande arte scenografica, nella quale Lepage eccelle col suo gruppo ex machina, che sa trasformare, sotto gli occhi del pubblico, l'interno della cucina della sua casa (così come è restituita scenograficamente nel parallelepipedo che esternamente riproduce in scala l'edificio in cui ha abitato), nel classico dine bar con bancone e sgabelli alti.
L'unicità del teatro di Lepage è anche nella pratica politica (nel senso di vita nella città), nella pratica discorsiva con un pubblico col quale ragionare, commentare e glossare.
L'occasione di ripercorrere un viaggio nella sua memoria biografica (le origini umili della sua famiglia, l'affetto indefesso per il padre e lo stacanovismo dell'uomo, che lo intenerisce) diventa per Lepage mezzo per rievocare una pagina di storia politica del Canada e del Quebec, (di)mostrando come il vissuto personale, avendo luogo in un determinato contesto storico, è di per sé politico e che non si può fare dunque essere davvero biografici se non si parla di Storia.
887 (il numero civico del palazzo d'infanzia) è uno spettacolo ambizioso, complesso, difficile da allestire e portare in scena (complicato anche dal fatto che Lepage parla per la maggior parte del tempo in italiano), che solamente la bravura e la perizia tecnica di Lepage riescono ad approntare con apparente leggerezza e facilità.
Un teatro a suo modo civile che incanta il pubblico nel momento stesso in cui lo disincanta: quel che avviene sul palco è artificio, fisico, narrativo, retorico: la verità non sta nel verosimile ma nella veridicità di quanto rievocato, testimonianza di un ricordo fallace, e per questo squisitamente umano, dunque vero che non mente proprio quando sa di potersi confondere e illudere.
Un discorso sulla memoria cui lo spettacolo fa omaggio sia come pratica narrativa (e la messinscena con tutti i suoi apparati scenici ne costituisce una sorta di correlativo oggettivo), sia come pratica di riflessione su chi il teatro lo fa e su chi lo guarda.
Una memoria che Lepage finge per celia di non avere tanto da che per ricordare i versi della poesia Speak White di Michèle Lalonde (che parlava del Quebec separatista), deve ricorrere a una strategia mnemonica che consta nel collocare i versi da memorizzare nei diversi ambienti mentali di una casa nella quale si è vissuti della quale ci si ricorda bene, proprio come quella d'infanzia.
Una memoria che è ricordo ma anche artificio e finzione quella finzione esemplarmente rappresentata dalla macchina narrativa teatrale.
887 infatti comincia con delle istruzioni per l'uso (spegnete i cellulari, i bagni e il bar sono alle vostre spalle) che sembrano alludere a un prima o un dopo dello spettacolo che invece non c'è visto che siamo già nello spettacolo.
Prima ancora del testo da ascoltare, della messinscena da vedere, il teatro è un rito collettivo che fa riunire pubblico e attori e attrici nello stesso edificio.
Lo spettacolo comincia sempre dal momento in cui varchiamo la soglia dell'edificio teatrale: se c'è qualcuno che ha qualcosa da dire c'è sempre qualcuno che manifesta l'intenzione di ascoltare.
Ed ecco che la memoria, quella privata del ricordo biografico, rinvigorisce la pratica della memoria collettiva, quella della Storia, spingendoci a teatro e muovendoci alla vita, in una parola, facendoci esistere.
Quale apertura migliore per il trentennale di RomaEuropa?