In principio era il bene, ma era anche il male.
A.H. lo spettacolo di Antonio Latella e Francesco Mainetti che, nel nome di Adolf Hitler, condensa in un’ora una sorta di “storia del male dalle origini ad oggi” inizia con un’esegesi della bibbia che dimostra la coesistenza da sempre di queste forze opposte.
Bet, ovvero la seconda lettera dell’alfabeto ebraico, nonché prima lettera della parola “Bereshit” (in principio), con cui inizia la Genesi e quindi coincide con l’origine del mondo, viene rappresentata in scena su un foglio bianco come un rettangolo vuoto aperto su di un lato. Questo vuoto viene riempito da un punto che ricorda i baffetti più sinistri della nostra storia recente.
Il punto in questione si rivela fin dall’inizio un punto dispotico, arrogante, che ritiene che “dopo di lui verrà la fine del mondo” come nella poesia di Gianni Rodari che viene citata subito dopo.
Il punto si trasforma quindi nel simbolo dell’inscindibile coesistenza di bene e male, verità e menzogna insite nella nostra natura, ed infatti, con grande efficacia, il foglio sul quale è stato tracciato il carattere ebraico viene stracciato in tanti piccoli pezzi, per la precisione 5.820.160, tanti quanti sono gli ebrei uccisi durante il secondo conflitto mondiale.
La figura di Hitler viene rievocata grazie a un barattolo di Nutella, che spalmata sulla testa e sotto il naso di Mainetti ne riproduce la celebre pettinatura ed i succitati baffetti. A questo segue un lungo e quasi straniante elenco di tutti gli strumenti di morte dall’età della pietra ai giorni nostri. Per svariati minuti Mainetti ripete e mima con grande intensità azioni belliche e uccisioni, quasi fosse una sorta di mantra al quale il pubblico sembra via via assuefarsi, come ormai si è assuefatto alla violenza che scorre quotidianamente sui mezzi di informazione, a voler dimostrare che al male ci si abitua e si diventa indifferenti.
Altro aspetto affrontato nello spettacolo è quello del rapporto tra vittima e carnefice, dominato e dominatore, quasi nell’indole umana vi fosse la necessità di un dittatore, che in questo caso viene evocato nella doppia recitazione del Padre nostro: la prima volta in chiave militaresco dittatoriale, mentre la seconda in una versione sottomessa, priva di consonanti, che ricorda un lamento.
Il padre come presenza torna ancora nel finale, dapprima nella figura di Pinocchio, emblema della menzogna, quindi nella citazione “Padre mio perché mi hai abbandonato” che prelude alla potentissima immagine conclusiva del Cristo nelle camere a gas che, per la sua bellezza ed intensità, da sola varrebbe il costo del biglietto.
Uno spettacolo non facile, fortemente simbolico, nel quale il bravissimo Mainetti riesce a toccare corde profonde ed evocare forti emozioni che si sciolgono al termine in un applauso dapprima titubante ma poi via via sempre più intenso.
Davide Cornacchione 25/02/2015