Lirica
AIDA

AIDA IN BLU

AIDA IN BLU

Dopo un inizio in sordina della stagione lirica, il Teatro Municipale di Reggio Emilia mette in scena uno spettacolo piuttosto riuscito, anche se con qualche ombra, che ha riempito il Teatro della città emiliana, come da tempo non accadeva. L’Aida di Giuseppe Verdi sul palcoscenico reggiano non era altri che la stessa che aveva inaugurato qualche settimana fa la stagione lirica del Teatro Regio di Parma; si trattava infatti di una coproduzione tra i Teatri di Parma, Modena e Reggio.

L’Aida è tornata dopo 24 anni a Reggio. Un’opera solenne, di grandi passioni, che vive di grandi tumulti interiori come di poderose scene di massa, un titolo amato e talmente noto che spiega il tutto esaurito della prima serata; ma anche un allestimento che trascinava dietro a se una serie di polemiche iniziate sulle scene parmensi. Si tratta di una ripresa di un allestimento del Festival Verdi 2005, creato da Alberto Fassini, qui ripreso dalla regia di Joseph Franconi Lee, un allestimento bello e sontuoso, ridondante, come d’altra parte il grande pubblico si immagina Aida e come il genere grand-opéra richiede. Il regista, grazie alle imponenti scene di Mauro Carosi piene di riferimenti all’ Oriente “visionario” di Gustave Moureau, pone in evidenza il tema del geroglifico e il colore del blu (tanto che alcuni personaggi sembrano usciti dal film Avatar), tipico del lapislazzulo egizio. Franconi Lee dà una lettura dell’Aida immaginando come se la vicenda si svolgesse in una tomba egizia in cui si scende poco a poco e i geroglifici prendessero vita: uno spettacolo ispirato al mondo dei morti, nel quale domina il colore blu lunare, con un finale dove sulla morte prevale l’amore. Il regista la vede come un’opera notturna, dove in molti quadri prevale un blu profondo, cobalto. La scena maestosa (a volte anche troppo) disegnata da Carosi è divisa in due livelli atti a separare due mondi, quello dei forti e quello dei vinti, ai quali si aggiunge un terzo livello che si spinge sul proscenio, dove i personaggi svelano il loro lato più umano, più intimo. Il blu insistente, esaltato dalle luci di Guido Levi, ben si adatta al dramma della schiava etiope, ne esalta il lato “lunare” e, nello stesso tempo, risulta un omaggio ad uno dei colori tipici della civiltà egizia. Il blu è anche il colore che nel trucco connota gli Egizi, il rosso e le tonalità terrigne gli Etiopi. I costumi, sempre a firma Carosi, risultano in genere di grande effetto anche se stilisticamente confusi e prevedibili, l’uso del velluto e di pesanti stoffe rendeva troppo goffi i movimenti dei personaggi già penalizzati da una regia solennemente statica.

Nel ruolo del titolo la giovane soprano italo caraibica Susanna Branchini è stata un’Aida molto intensa nel personaggio e ha dimostrato di avere superato alcuni limiti vocali, soprattutto nel miglioramento dell’intonazione; purtroppo manca nei pianissimi e nella raffinatezza di fraseggio; pur penalizzata dalla regia in pose rigide e convenzionali, la sua bellezza ha incantato il pubblico reggiano.
L’Amneris di Mariana Pentcheva, è stata apprezzata molto per l’irruenza e la passionalità del personaggio; la voce, autorevole e volitiva, è sembrata in alcuni casi eccessivamente ingombrante, però ha portato a termine in modo più che discreto il suo ruolo.
Hector Sandoval in Radames ha avuto un inizio molto difficile, l’aria Celeste Aida è stata uno scoglio insormontabile: la voce piccola non ha permesso di realizzare un personaggio pienamente credibile, a cui si è aggiunta anche una difficoltà di pronuncia e fraseggio.
Alberto Gazale è stato un Amonasro davvero credibile; senza dubbio la migliore voce verdiana della serata, espressivo nel fraseggio, chiaro nelle intenzioni, intenso nel personaggio, dotato di voce dai giusti accenti, a cui si perdona volentieri qualche eccesso enfatico.
Poco incisivo il Ramfis di George Andguladze dotato di voce secca e alla costante ricerca di sonorità ingrossate. Carlo Malinverno nel ruolo del Re ci è parso troppo poco incisivo e di scarso spessore; così pure, debole, il messaggero di Cosimo Vassallo. Ricordiamo infine la sacerdotessa di Marcella Polidori.

Sotto tono l’Orchestra del Teatro Regio di Parma, non certamente ai livelli a cui ha abituato il suo pubblico, diretta dal maestro Antonino Fogliani. Il maestro ha diretto in modo fiacco e con tempi eccessivamente dilatati e con certe chiassosità inspiegabili. Non sono mancate però le pagine di grande intensità. Le trombe egizie non sono state troppo precise durante il “trionfo” e neppure gli ottoni in buca lo sono stati durante la scena del processo.
Il grande coro del Teatro di Parma, diretto da Martino Faggiani, ha, come sempre dimostrato una preparazione e una precisione ineguali, anche se, senz’altro a causa della direzione musicale, è apparso in alcuni momenti come spaesato.
Le coreografie di Marta Ferri ci sono sembrate inadeguate e troppo banali.

Il Teatro Municipale, pieno, come abbiamo già ricordato, ha apprezzato questa produzione, che aveva tutti i crismi della tradizione; pur avendo gradito alcune voci, come la Branchini, a cui ha riservato un lungo applauso, ha altresì criticato altre.

Visto il
al Municipale Romolo Valli di Reggio Emilia (RE)