Se il festival areniano era stato inaugurato nel 1913 con Aida in occasione del centenario della nascita di Giuseppe Verdi, va da sé che non si poteva non celebrare il centenario della stagione estiva veronese e il bicentenario del compositore con una nuova Aida, anzi NUOVA, scritto in caratteri cubitali, come solo potevano garantire i Fureri, noi già preparati dall'incandescente Ring del Maggio fiorentino più che dal Tannhauser indiano della Scala o dal Samson intimo dell'Opera di Roma che però riscattava la bambolona del Grand macabre. In questo caso la regia è di Carlus Padrissa e Alex Ollé, le scene di Roland Olbeter e i costumi di Chu Uroz.
Mentre gli spettatori entrano in Arena si svolge un prologo che ambienta la vicenda, centinaia di persone si affollano sul palco come formiche: si intuisce essere un campo di scavo, una lunga fila di manovali sulle gradinate si passa catini di terra come sempre si vede ancora oggi in tutto l'Oriente, metafora del sud del mondo. Presto si chiarisce essere un campus archeologico, il materiale scavato e provvisoriamente ricomposto viene poi imballato in grandi casse con la dicitura “British museum” che apre il pensiero alle spoliazioni, non solo del passato: gli stranieri maltrattano fisicamente e psicologicamente i locali. Il rilievo di grandi massi scolpiti ha l'immagine di una coppia che si abbraccia e nella postura rimanda vagamente al bacio klimtiano, lui sovrastante incurvato su lei.
Poi inizia lo spettacolo e il prologo risulta non determinante per la successiva azione. La scena è vuota, immenso spazio che continua sulle gradinate; al centro del palco due torri-traliccio a cui sono agganciate due gru, una terza è fuori dall'anfiteatro, ben visibile e parte integrante della scena. Precisi e rispettosi, seppure non collocabili nel tempo del libretto, i luoghi in cui si svolge la vicenda, mentre i costumi contribuiscono a rendere i fatti eterni con una visionarietà di materiali che costituisce una delle cifre del gruppo catalano.
Nei primi due atti ci sono momenti nei quali le necessità scenotecniche comportano rumori che distraggono se non addirittura infastidiscono: i gonfiabili durante l'assolo di Aida nel primo atto e la sovrapposizione delle casse di laminato inox durante il trionfo, ad esempio. Ma tutto quello che succede in scena è appagante per l'occhio e in linea con la musica. Alcune idee restano nella memoria, come la famiglia dei dromedari e l'elefante in stile “meccano”; oppure i coccodrilli (mimi su carrelli proni a terra) protagonisti del terzo atto che sguazzano nell'acqua; o ancora la costruzione specchiante che, nel finale, si chiude sui due protagonisti. E come dimenticare le dune di sabbia sulle gradinate o le palme a ventaglio mosse dai danzatori? Immagini di tale forza da diventare iconiche. Infatti nella regia non sembrano esserci novità sensazionali: come spesso nei lavori della Fura a dominare è il dato visivo, l'effetto tecnologico, la visionarietà scenotecnica; cantanti e coristi sono invece caratterizzati dalla quasi staticità ma questo fatto non dà l'idea dell'immobilità, anzi pare perfetto per quelle soluzioni sceniche e registiche.
Il futuro ha radici nell'archeologia: ecco animali meccanici, motorini con su lo scarabeo logo del faraone, muletti che trasportano casse di materiale sequestrato agli etiopi (biciclette, sporte di plastica e quattro stracci), una lunga teoria di container che daranno vita, sovrapposti, a una costruzione, futuribile versione delle piramidi che riflette la luce come una centrale termodinamica in onore del Sole. L'allestimento presenta infatti i consueti simboli dell'antico Egitto riletti in chiave contemporanea e declinati con materiali d'avanguardia.
Stupisce la favola narrata con il gioco di ombre cinesi che incanta i bambini durante la danza dei moretti. Sulle gradinate spesso il fuoco che, unito all'acqua che inonda il palcoscenico per terzo e quarto atto, completa la presenza degli elementi, dopo la terra (e la sabbia delle dune) e l'aria-vento. Poco utile nell'economia dello spettacolo la grande gru utilizzata solo per appendere una luna di carta, che raddoppia la luna piena che sorge oltre le gradinate dove, nel finale, si schierano centinaia di comparse con piccole lune in mano.
Nel finale, come si diceva, la “piramide” di cassoni-container si chiude sopra i due amanti ma rivela, dietro, la scultura dell'inizio ora ricomposta: l'amore non finisce. E neppure la denuncia delle spoliazioni e delle sopraffazioni né il discorso ecologico coi bidoni di rifiuti tossici.
Omer Meir Wellber dirige con mano sicura una partitura che a Verona è popolarissima (al punto che l'inizio del trionfo è ritmato dal battimani). Il maestro è bravo nel cogliere e isolare i dettagli della partitura che risulta così luminosa nel suono e screziata da bruniture per esaltare soprattutto i momenti intimi e riflessivi, senza per questo dare meno spazio al trionfo o all'immenso Ftha che esplodono in tutta la loro magniloquenza. Tuttavia, nonostante l'apparato visivo, si sono apprezzate maggiormente le pagine delicate e interiori del terzo e quarto atto su quelle eroiche e potenti. I tempi sono sostenuti per dare continuità alla tensione narrativa consentendo, al tempo stesso, la massima cantabilità possibile. Al direttore va dato atto della difficoltà di dirigere uno spettacolo molto complesso con i numerosissimi figuranti e gli operai in tuta arancione che montano e smontano.
Hui He è una straordinaria Aida, di grande sensibilità interpretativa e perfezione vocale a cominciare da mezzevoci assai espressive e acuti limpidi piegati a dare il senso delle parole: “Patria mia” ha splendidi colori ma in tutta l'opera il soprano ha profuso mirabili filati e perfetti fraseggi. Giovanna Casolla ha grande esperienza nell'organizzare la voce ma la sua Amneris è poco marcata in basso e mostra pericolose oscillazioni non compensate dalle impennate in acuto. Fabio Sartori è corretto nella voce e non prodigo di sfumature, fiero e innamorato nel contegno ma come intimidito da quanto succede. Ambrogio Maestri è un Amonasro guerrigliero non particolarmente in evidenza. Molto bravo Adrian Sampetrean, Ramfis altero e distaccato dalla voce possente e incisiva, usata con grande perizia. Preciso e autorevole il Re di Roberto Tagliavini. Con loro, adeguati, Carlo Bosi (messaggero) ed Elena Rossi (sacerdotessa). Coro ben preparato da Armando Tasso, corpo di ballo diretto da Maria Grazia Garofoli.
Pubblico numeroso, molti applausi, stupore per uno spettacolo necessario per intercettare pubblico giovane e stranieri con la moderna declinazione di un colossal lirico: le sparute contestazioni durante la marcia trionfale non diminuiscono il successo della serata. Questa Aida sarà replicata per tutto luglio per poi lasciare il posto, in agosto e settembre (e così anche il prossimo anno) all'Aida storica del 1913, colossal dell'epoca: un confronto imperdibile.