Lirica
AIDA

AIDA SUL NEMRUT DAĞI

AIDA SUL NEMRUT DAĞI

Nell’ambito delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità nazionale, il Maggio ha commissionato a Luca Mosca e Gianluigi Melega musica e libretto di L’Italia del destino (15 e 17 maggio, teatro della Pergola) e ha inaugurato il festival con una verdiana Aida (teatro Comunale, fino al 12 maggio) che segna il debutto nella regia lirica di Ferzan Ozpetek, celebratissimo e pluripremiato nel cinema, operazione non nuova al Festival fiorentino.

Ozpetek non rischia e resta nella tradizione, creando uno spettacolo in equilibrio tra monumentalità ed intimità.
Le scene di Dante Ferretti riportano il vuoto del deserto, dove si stagliano in tre atti (primo, terzo e quarto) due statuone sedute viste rispettivamente dal verso, dal recto e di profilo, statue così alte che la cornice del boccascena (pietre squadrate giallastre decorate coi soliti geroglifici) in parte le taglia per una piccola porzione in alto. Le teste di Nemrut Daği sono sempre presenti sullo sfondo e poi sopra la tomba nel finale, strano accostamento con l’Egitto che costituisce il filo conduttore della scenografia e un omaggio alla terra natale del regista. Il legame tra i faraoni e la tomba di Antioco I (con l’irripetibile sincretismo ellenistico, persiano, anatolico ed ittita espresso da quelle figure in cima alla montagna e qui prese sul punto di sprofondare nelle sabbie del deserto) spinge lo spettatore a confrontarsi sin dall’inizio con l’idea della morte e della tomba, sempre costante durante tutta la rappresentazione.
Gli interni hanno alti muri di grandi blocchi travertinici con su pitture parietali bianco e marrone, un’infilata di soldati di profilo affittiti oppure teste trecciute dall’inconfondibile occhio allungato.
Nel secondo atto la scena è dominata da un testone scolpito nella roccia (rectius una montagna scolpita come un volto) che riprende le fattezze dell’immagine sul sipario, un viso coi capelli puntati d’oro lucenti come nelle opere klimtiane, il che tinge tutto di decadentismo. La messa in scena vira dunque verso l’orientalismo invece che verso l’oriente e l’antichità.
I costumi di Alessandro Lai sono zeffirellianamente sontuosi, un po’ da kolossal anni Sessanta: lunghi mantelli per Amneris (nero nel quarto atto), una pelle animale indossata come gilet per Ramfis (un leopardo con testa e zampe penzolanti), tuniche lunghe fino a terra per Radames, tribali gli etiopi con trecce multicolor, fazzoletti in testa per gli egizi.
Ottime le luci di Maurizio Calvesi, prevalentemente arancioni, calde e avvolgenti come l’estasi amorosa, a momenti lunari, biancastre e raggelanti come la solitudine in amore. Luci che rimandano senza dubbio alle atmosfere dei film di Ozpetek.

Ferzan Ozpetek sceglie prevalentemente posizionamenti frontali per le numerose masse, essenzialmente statiche; per i protagonisti la gestualità è in linea con le indicazioni librettistiche, scontatamente. Ma con alcune novità. Si vuole un Egitto parimenti tribale rispetto all’Etiopia: ecco dunque su un’ara una carcassa di animale, macellata in diretta dalle sacerdotesse che si insanguinano braccia, volto, vesti; lo stesso sangue viene offerto dentro una coppa a Ramfis e Radames e da loro bevuto per propiziare la battaglia.
La scena della marcia trionfale è sostituita dall’apparire di una bambina scalza, lacera, sporca e insanguinata, che si aggira disorientata e dolorante: forse Aida bambina? Oppure l’anima e i ricordi della schiava etiope che assurgono a simbolo della sofferenza del popolo prigioniero?
La danza che segue, coreografata da Francesco Ventriglia, è una contrapposizione tra Egizi foulardati (in rosso) ed Etiopi trecciuti (in azzurro), una danza guerriera e tribale ritmata dal battere a terra dei bastoni. La danza degli schiavi mori è diventata una danza degli specchi che circondano Amneris al momento della vestizione. Non ho compreso perché Amneris mette la corona dorata “sul crin del vincitor” e un secondo dopo gliela toglie, restituendola a una schiava. Nel finale Aida e Radames sono chiusi nella tomba che viene riempita di sabbia, inghiottiti dal deserto sempre presente in scena, anche quando il Nilo luccica azzurro oltre una terrazza.

Magistrale la lettura orchestrale di Zubin Mehta, che scolpisce gli apporti solistici in rilievo sontuoso e li inserisce nel legato orchestrale in modo perfetto. Il risultato è come vedere risaltare fili d’oro in una trama di stoffa. Il Maestro indiano sottolinea perfettamente la dualità della partitura con infinita cura: i momenti intimi e notturni, i momenti monumentali e solari. Il “fluire musicale” è di irripetibile emozione. I tempi sono scanditi ma non serrati e consentono alla musica di dispiegarsi nello spazio e spiegarsi all’attenzione dell’ascoltatore. Un suono pieno di energia e di luce, un suono che scintilla e rimane aereo, leggerissimo, venato di trasparenze che ne svelano accenti e timbri mai ascoltati prima. La lettura di Mehta, raffinatissima, visualizza complesse coordinate espressive che portano a una rarissima ricchezza analitica dalla sinfonia all'ultima nota.
Ottima l’orchestra del Maggio, come ottimo il coro preparato da Piero Monti che ha fornito una prestazione autorevole negli accenti e nel volume.

Maria Josè Siri è una Aida che privilegia la dimensione intima e discosta e pertanto non domina la scena; la voce, non particolarmente estesa, è di bel colore scuro ma tende a vacillare in acuto e il verso non è “verdianamente” scolpito. Walter Fraccaro è un Radames generoso, più convincente nell’abbandono lirico, che potrebbe mettere maggiormente in luce le contraddizioni che arricchiscono il personaggio. Mariana Pentcheva è una Amneris ampia e potente, ruvida nell'emissione, meglio in basso che nell’alto caratterizzato da un eccessivo vibrato. Autorevole e tonante il Ramfis di Enrico Iori, di granitica autorità, eccellente nel giudizio finale da fuori scena. Vocalmente giusto e corretto il giovanile Re di Roberto Tagliavini, dall’ingombrante costume con le monumentali spalline. L’Amonasro di Anooshah Golesorkhi dovrebbe curare maggiormente la pronuncia; il personaggio è reso in modo prevalentemente barbarico, senza sottolineare il dato regale e politico del ruolo. Brava la Sacerdotessa di Caterina Di Tonno, corretto il Messaggero di Saverio Fiore.

Pubblico numeroso, generosissimi applausi sia durante la recita che nel finale. Si poteva evitare il secondo intervallo attaccando terzo e quarto atto, come già fatto per i primi due (credo fosse sufficiente per il cambio scena una pausa brevissima a luci abbassate): ne avrebbe ulteriormente guadagnato in compattezza la eccellente narrazione orchestrale di Zubin Mehta.

Visto il
al Maggio Musicale Fiorentino di Firenze (FI)