Micha Van Hoecke, con la preziosa occasione di ripensare una sua creazione (Caracalla 2011), riesce a restituire un’Aida “essenziale e intimista, un’opera segreta, privata. Una favola noir in una terra di sogno, di mistero, permeata da una profonda spiritualità”. La sua è una regia che cerca una lettura delle storie individuali invece che dare spazio alla cornice faraonica: lo spettacolo è improntato al poco movimento ma capace di rendere la rarefazione e la sacralità della storia in modo comprensibile ed efficace, nonostante la genericità di alcuni momenti e movimenti.
Il palcoscenico è vuoto e affidato alle sapienti luci di Vinicio Cheli, in scena solo due scalee che, diversamente posizionate, riescono a rendere la suggestione delle varie ambientazioni; in aggiunta i profili di barche con le prore uncinate come scorpioni nel terzo atto e il ponte mobile che si solleva nella scena del trionfo. Nel finale incombe un enorme sole nero con la superficie come i Cretti di Alberto Burri; invece all'inizio Aida e Amneris sono immobili ai lati del palcoscenico, una con le spalle all'altra, guardando in opposte direzioni. I costumi, di Carlo Savi come le scene, sono nello stile kolossal.
Nella regia di Van Hoecke non c’è eroismo né trionfalismo: si racconta una vicenda intima dove i sentimenti sono protagonisti. Spazio ampio viene dato alle coreografie, sempre di Micha Van Hoecke: movimenti essenziali e astratti, egizi nelle fattezze riprese da sculture (spesso anche Aida così); la danza dei moretti è affidata a un giovane uomo fra nuotatrici di sincronizzato; la marcia del trionfo acquista sacralità con le rotazioni di un derviscio e primordialità con una donna serpente inseguita da cacciatori; infine le cheerladies con tondi decorati da intrecci di mezzelune.
Jader Bignamini, giovane e sensibile, è il principale artefice di una serata eccellente: dirige con tempi allargati, ieratici e solenni, privilegiando una tinta intima che non esclude il suono importante dei concertati e di altri momenti ma sempre curando tutti i dettagli.
Domina il cast Anita Rachvelishvili, Amneris di grande temperamento vocale e attoriale, la migliore in scena e non solo per gli acuti svettanti e i gravi profondissimi: la voce è grande ma duttile e capace di piegarsi per esplorare ogni dettaglio della partitura, accompagnandosi a una presenza fisica convincente. Il Re di Luca Dall’Amico si distingue per la presenza ieratica e la voce usata in modo giusto. Non fa alcuna fatica la voce della volitiva Csilla Boross a superare il boccascena: forte e ben timbrata, la sua Aida non teme gli acuti ed è ben sostenuta nel centro, capace di cogliere tutti i risvolti del ruolo (nelle recite alternate è stata annunciata, in sostituzione dell'indisposta Maria Pia Piscitelli, Hui He, cantante superba ed efficacissima nel ruolo che già interpretò a Caracalla). Fabio Sartori ben conosce e frequenta il ruolo di Radamès e regala una prestazione precisa e sicura. L'Amonasro splendido di Giovanni Meoni è autenticamente verdiano; adeguato vocalmente, ha una serpentesca e moderna capacità di subdola insinuazione. Bravo il Ramfis di Roberto Tagliavini. A completare adeguatamente la locandina la Sacerdotessa di Simge Buyukedes e il Messaggero di Antonello Ceron. Positiva la prova del coro preparato da Roberto Gabbiani, ottimo nella sezione maschile. Fondamentale l’apporto del corpo di ballo del teatro dell’Opera: Alessio Rezza è lo scultoreo schiavo moro, Giuseppe Depalo il derviscio rotante e Alessandra Amato la Dea della Vittoria da noi indicata come “Donna serpente”.