A pochi anni di distanza da quello di Franco Zeffirelli, la Scala produce un nuovo allestimento di Aida che cancella e fa dimenticare il precedente, cercando un risultato tanto diverso da sembrare quasi opposto: fasto ed esteriorità contro minimalismo e interiorità.
La scena di Ferdinand Wögerbauer privilegia spazi vuoti ma suggestivi delle ambientazioni volute dal libretto e i pochi oggetti sono funzionali alla narrazione in un contesto non connotato con decisione ma che rimanda comunque all'Egitto antico (anche solo con il profilo quadrangolare delle porte). Lavoro egregio in quanto un certo “orientalismo” deve pur esserci visto che è così ampiamente presente nella mente del compositore, pur nelle rigorose ed essenziali geometrie proposte qui. I costumi di Nanà Cecchi non insistono su un'epoca determinata ma mescolano periodi in modo originale però mantenendo suggestioni egizie: lunari i sacerdoti, dorati i faraoni, colorati gli etiopi, fangosi gli egizi. Adeguate le luci di Joachim Barth a cui spetta il compito di determinare interni ed esterni in modo riconoscibile ma, al tempo stesso, non vincolante. In questa edizione sono stati tagliati i ballabili del trionfo e dunque gli interventi coreografici di Massimiliano Volpini si limitano alle sacerdotesse del secondo quadro del primo atto e ai moretti del primo quadro del secondo atto.
Peter Stein si accosta l'opera con l'amore del melomane e l'esperienza del regista di prosa. La sua attenzione al libretto è enorme; espressioni dei visi, movimenti sul palco, gesti: tutto è improntato a esprimere i sentimenti dei protagonisti e narrare la storia con chiarezza e naturalezza. Non si scivola nel didascalico perchè la mano del regista non banalizza e mai resta in superficie, preferendo invece sondare animi e caratteri. Sorpresa nel finale, quando Amneris si taglia le vene divenendo protagonista del momento di morte con declinazioni pulp nei rivoli rossi che scendono dal pietrone dorato sopra l'ingresso della tomba.
Domina il cast Anita Rachvelishvili, Amneris di grande temperamento vocale e attoriale, la migliore in scena: la voce è grande ma duttile e capace di piegarsi per esplorare ogni dettaglio della partitura, accompagnandosi a una presenza fisica convincente. Ottima prova di Carlo Colombara, un Re ieratico, solenne e distaccato che però scende fra il popolo. Fatica la voce di Kristin Lewis (un'Aida quasi sempre inginocchiata e con lo sguardo a terra) a superare il boccascena: scompare nel grave, nelle salite all'acuto talvolta è al limite dell'intonazione e i passaggi non sempre sono a fuoco, seppure si sono apprezzati i tentativi di cercare i risvolti del ruolo. Seppure non brilli particolarmente, non delude le aspettative Fabio Sartori, che ben conosce e frequenta il ruolo di Radamès. L'Amonasro di Ambrogio Maestri è adeguato vocalmente ma non ha la vis dramatica necessaria. Rispetto per la lunga carriera di Matti Salminen, ma il suo Ramfis si ascolta con fatica. A completare la locandina la Sacerdotessa di Chiara Isotton e il Messaggero di Azer Rza-Zada, provenienti dall'Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala. Positiva la prova del Coro preparato da Bruno Casoni, nonostante qualche sfasatura nell'atto primo.
Zubin Mehta privilegia piani e pianissimi e mantiene tempi accurati e mai frettolosi: una direzione splendida nella ricerca dei contrasti cromatici e delle sfumature senza mai scivolare nel didascalico o nel “già sentito”, assecondando alla perfezione le esigenze del canto e della regia. Si è apprezzato in particolare l'intimismo di molti momenti, che non ha escluso il suono importante dei concertati e di altri momenti.
Teatro esaurito, vivo successo.