Aida a Caracalla festeggia i cinquanta allestimenti a cominciare da quello del luglio del 1938 che vedeva sul podio Oliviero De Fabritiis, la regia di Herbert Graf con le scene di Nicola Benois, interpreti Maria Caniglia, Ebe Stignani, Beniamino Gigli. Percorso che il programma di sala, ingrandito nel formato, segue con date e nomi, oltre che con suggestive fotografie prima in bianco e nero e poi a colori. L’attuale è lontano dagli stereotipi e dalle Aidone del passato a misura di turista, romano e straniero. Micha Van Hoecke vuole un’Aida “essenziale e intimista, un’opera segreta, privata. Una favola noir in una terra di sogno, di mistero, permeata da una profonda spiritualità”.
Il palcoscenico è vuoto, salvo tre vele triangolari di garza rossa che ricordano vagamente le piramidi, con altre più piccoline di garza nera, forse per nascondere gli attrezzi o chi è in procinto di entrare in scena, dunque una funzione più di servizio che propriamente scenografica. A Caracalla lo sfondo del calidarium è già di per sé assai suggestivo a va considerato parte fondamentale della scena, “muri che trasudano storia” dice in regista nel programma di sala. I costumi, di Carlo Savi come le scene, sono lineari, essenziali, privi di orpelli per lo più, con insolite insegne regali per il faraone (una specie di remo da kayak) e il “serto trionfale” che diventa una sciarpa gialla. Costumi che danno un segno forte per decifrare la regia: Amneris e Aida sono praticamente uguali, non c’è differenza tra regina e schiava, sono due donne che amano, è il sentimento che interessa e non la qualifica sociale e politica. Qualche confusione tra il pubblico si crea: Radames canta “Celeste Aida”, Aida in rosso transita in penombra a fondo palcoscenico, Amneris in celeste avanza verso il proscenio e molti le scambiano. Originale l’idea di utilizzare un muro di luce e fumo per “velare” i cambi scena, precisamente lo spostamento di due scale, semplice ma efficacissimo per delineare e delimitare i diversi contesti. Solo nel secondo atto, per l’interno della camera di Amneris, un enorme ventaglio aperto rende lo spazio più intimo. Sul Nilo le piroghe hanno poppe ricurve come code di scorpioni. Una porzione di palcoscenico si alza per la tomba del finale. Bello il progetto luci di Agostino Angelici, che valorizza le rovine inserendole nel contesto scenico.
Nella regia non c’è eroismo, non c’è trionfalismo: si racconta una vicenda intima dove l’uomo e i sentimenti sono protagonisti. Spazio ampio viene dato alla coreografia. E non poteva che essere così, visto che il regista è coreografo e direttore del corpo di ballo del teatro dell’Opera. Le danze non sono intermezzi ma divengono parte integrante del racconto. A cominciare dall’ouverture, con un preludio a due che introduce con movimenti essenziali, egizi nelle fattezze riprese da sculture, bassorilievi e geroglifici per dare l’idea del luogo e della storia d’amore, un legame a due che nessuno riuscirà ad interrompere. Poi il segno coreografico si fa più atletico: la danza dei moretti è affidata ad ancheggianti ragazze (che paiono miss a un concorso di bellezza) e due giovani come tarantolati; la marcia del trionfo acquista sacralità con le rotazioni dei dervisci e le loro ampie gonnellone, stemperata da cheerladies con tondi decorati da intrecci di mezzelune. Il senso di mistero e di morte è dato da Anubi (Signore della Morte) che passa in silenzio più volte, sfiorando Aida nel finale della prima parte del primo atto e rendendo così fatalmente inevitabile il prosieguo della vicenda. Una regia essenziale, prevedibile nella gestualità (ma non certamente nella marcia trionfale, sostituita interamente dal balletto).
Asher Fisch dirige in modo non robusto, in linea con le scelte registiche, cercando una tinta intima e curando le sonorità in modo non scontato; il Maestro garantisce tempi giusti e rilievo agli strumenti solisti.
Hui He è un’Aida di grande bravura, che affronta il ruolo con tecnica solida e grande varietà di accenti; le mezzevoci sono un punto di forza, come nella struggente “O patria mia” che riempie, in solitudine, lo spazio smisurato (tale da rendere inutile la replicante nell’ombra sotto la palmetta); tutta la prestazione è assai musicale, aiutata da registri adeguati. Giovanna Casolla risolve con intelligenza e col suo registro sopranile il ruolo ormai abituale di Amneris. Walter Fraccaro si muove da fiero condottiero: la sua presenza non passa inosservata in scena; vocalmente il tenore è sempre assai generoso e qui ci è parso in forma particolare, la voce è piena e gli acuti sicuri; i tempi leggermente allargati in “Celeste Aida” gli consentono di cesellare il verso e delineare al meglio le intenzioni sentimentali. Alberto Mastromarino è ha costume eccessivo e voce imponente, ma il suo Amonasro non si impone realmente. Anche il Ramfis di Rafal Siwek indossa un costume assai elaborato, improntato al “troppo”. Il Re di Luca Dall’Amico si distingue per la presenza ieratica e la voce usata in modo sapiente. In mimetica il messaggero di Cristiano Cremonini; brava la sacerdotessa di Nicoletta Curiel. Il coro del teatro dell’Opera è stato ben preparato da Roberto Gabbiani.
Fondamentale nella riuscita dello spettacolo l’apporto del corpo di ballo del teatro dell’Opera. I migliori ci sono parsi Laura Comi (che replica la sacerdotessa) e Alessandro Tiburzi e Gaia Straccamore, ai quali due è affidato il preludio: in particolare Tiburzi arcua e tende la muscolatura come se la tensione si propagasse da un cuore innamorato non appagato del tutto. Sono anche da segnalare Antonio Mastrangelo e Alessio Rezza (i moretti), Manuel Paruccini, Gerardo Porcelluzzi e Emanuele Mulè (i solisti-dervisci nel trionfo).
Lo spettacolo non è magniloquente ed esagerato come qualcuno si aspetta, però convince il pubblico che applaude con convinzione l’allestimento e i cantanti, soprattutto Hui He. Un allestimento non scontato, meritevole di attenzione.