Lirica
AIDA

TERREMOTO AIDA

TERREMOTO AIDA

L'inaugurazione della stagione 2012 del Regio di Parma è stata preceduta nel pomeriggio da una fortissima scossa di terremoto, che ha fatto scendere tutti in strada. Poi, la sera, il teatro era gremito, segno che la città ha voglia di lasciarsi i problemi alle spalle e ritrovarsi. Pubblico elegantissimo, forse più di altri anni, ma con la necessaria austerità.
Sbaglia chi crede che Aida sia un’opera “faraonica”, nel senso che è vero che è ambientata all’epoca dei faraoni, ma non è un’opera di estreme grandezze, anzi, tutt’altro, nonostante le apparenze e le abitudini Aida è un’opera di grande raccoglimento e di profondo intimismo. In più va considerato che le sole testimonianze che abbiamo della civiltà egizia sono quelle funerarie, per cui nell’allestire l’opera si deve cercare di non incappare nel banale “intimo uguale oltretombale”.

Aprire la stagione che si avvia al bicentenario verdiano con Aida è una sfida, messa in campo dal Regio insieme ai Teatri di Reggio Emilia e al Comunale di Modena. Si ripropone l'allestimento del Festival Verdi 2005 (quando era ancora posizionato nella tarda primavera, in coda alla stagione lirica).
Il sipario è un muro di pietra coperto di geroglifici, per cui lo spettatore si aspetta un allestimento filologico. Lo è (parzialmente) la scena di Mauro Carosi, tradizionale (ma non troppo) e claustrofobica (ma non troppo). L’allestimento comincia e finisce in un clima tenebroso, è tutto in interni, un notturno il cui colore dominante è un blu profondo, fin dall’inizio, emblematico presagio della fine. La ricostruzione dell’antico Egitto è abbastanza precisa nella verosimiglianza, i templi di Karnak e Luxor sono lì, sul palcoscenico, ricoperti di geroglifici. A questo si contrappongono i costumi (sempre di Mauro Carosi), assolutamente non tradizionali, assolutamente non filologici, al di fuori di ogni unitarietà di idea, eccessivi, ridondanti ma pieni di fantasia nel contaminare le epoche e i luoghi, come se l’opera fosse una grande ed eterna fiaba disneyana; Sebbene alcune cose siano state tolte (il copricapo piumato di Amonasro e gli ombrellini viola dei sacerdoti), anni dopo ci sono parsi “troppo”, calzature e accessori compresi, soprattutto il trucco (non solo le pelli blu degli egizi). Perfette le luci di Guido Levi, essenziali per la riuscita dello spettacolo.

La regia di Joseph Franconi Lee (tratta da uno spettacolo ideato da Alberto Fassini) privilegia la rigida monumentalità degli insiemi. Lo spettacolo ha i tre intervalli previsti nel libretto per consentire i faticosi e lunghi cambi di scena (rectius il diverso posizionamento di colonne, muri e portoni) e gli atti si aprono con i fermoimmagine delle comparse. Poco d'effetto l'attesa scena del trionfo: minimi e modesti i movimenti e il corteo (ridotto) in lontananza sulle rive del Nilo, quasi invisibile dalla platea dietro il muro di coristi. Per il resto i movimenti sono in linea con la trama ma resta una sensazione di rigidità da parte dei cantanti, evidentissima nel finale del terz'atto, forse il momento chiave dell'opera, in cui invece non c'è alcuna tensione drammatica e quindi nessuna emozione. Il balletto, affidato alle coreografie di Marta Ferri, ha privilegiato un taglio comico per la danza dei moretti e poca solennità per la scena del trionfo.

La volta precedente il maestro Bartoletti e l’ottima orchestra del Regio avevano fatto sulla partitura un attento lavoro di scavo, riuscendo a far perdere all’opera quel senso di routine che inevitabilmente si affaccia ogni volta. Non lo stesso risultato si è riprodotto nelle mani di Antonino Fogliani, il cui gesto rilassato ha portato a una direzione morbida, con tempi inusuali in cui si sono alternati allargamenti a momenti più serrati. Quel che meno ci ha convinto è non avere evidenziato le (poche) pagine monumentali e, soprattutto, non aver dato i giusti colori ai molti momenti intimi e lirici. E la morbidezza degli archi dell'orchestra del Regio, da sola, non basta al pubblico. Il coro del Regio, preparato da Martino Faggiani, è stato notevole, leggero ma presente nel canto sottovoce, potente ma contenuto nel resto.

Susanna Branchini ha voce di bel colore, iscurito da bruniture che ne ispessiscono la trama; la sua Aida è impetuosa in ogni momento ma contraddetta dalle scelte registiche che la vogliono spesso inginocchiata con le braccia levate al cielo; il soprano convince maggiormente nei momenti in cui il canto si fa spiegato e meno in quelli in cui il canto deve farsi intimo e lirico (poco efficaci le smorzature nell’aria “O patria mia, mai più ti rivedrò” sull’assolo di oboe). Mariana Pentcheva tiene la scena in modo autorevole, seppure penalizzata da trucco e parrucco; la sua Amneris è potente e volitiva; la prestazione è andata in calando nel corso della recita arrivando alla lunga aria del quart'atto con poco controllo nel vibrato. Walter Fraccaro frequenta da anni e con un numero elevato di repliche il ruolo di Radames; qui è parso in difficoltà fin dall'inizio: “Celeste Aida” è monocorde e qualche passaggio è al limite dell'intonazione; le cose non migliorano nel terzo e nel quarto atto, anzi: un canto non morbido e assolutamente privo di colori. Alberto Gazale è Amonasro: voce giusta per colore ed estensione, buona prestazione nonostante qualche eccesso di enfasi per rendere un re non domato e fiero. Giovanni Battista Parodi è un Ramfis che si muove come ingessato, forse impacciato dal copricapo; la voce è scura ma tende a sparire in basso. Carlo Malinverno è un re d'Egitto non abbastanza autorevole. Debole il messaggero di Cosimo Vassallo, brava la sacerdotessa di Yu Guanqun.

Da rilevare l'atteggiamento del pubblico: nei primi due atti pochissimi e freddi applausi e un paio di battute dal loggione, dopo il terzo qualche rumore in più ma lasciando sempre prevalere il gelo e il silenzio; nel quarto atto risate e battute durante la recita e poi sonori fischi nel finale. Alla ribalta il pubblico (e non solo del loggione) ha riservato aperte contestazioni per tutti i cantanti (tranne Gazale e, in parte, la Branchini), per il direttore, per il regista e i tecnici dell'allestimento. Un terremoto anche questo. Come un terremoto è parsa la mezz'ora di ritardo nell'incominciare voluta dai tecnici riuniti in assemblea sindacale preoccupati per la situazione economica e occupazionale del Regio. Ora l'attesa è tutta per il raro Stiffelio, in cartellone per cinque recite in aprile.

Visto il
al Regio di Parma (PR)