In scena il classico Egitto immaginifico di inizio Novecento fatto di sfingi, obelischi, colonne policrome, palme, il tutto in un insieme che si integra perfettamente con la naturale scenografia areniana
Uno spettacolo lineare, tutto sommato pulito nella sua grandiosità, intriso di movimenti scenici che sanno di passato, ma proprio per questo nella sostanza affascinante, quello che Gianfranco De Bosio ripropone anche quest’anno in Arena, uno spettacolo ispirato allo storico allestimento di Aida concepito nel 1913 da Giovanni Zenatello per la prima rappresentazione dell’opera nell’anfiteatro romano.
In scena il classico Egitto immaginifico di inizio Novecento fatto di sfingi, obelischi, colonne policrome, palme, il tutto in un insieme che si integra perfettamente con la naturale scenografia areniana di cui vengono ripresi quasi alla lettera i colori e le venature cromatiche della pietra. Grazie al diverso posizionamento di elementi modulari vengono ricreati i vari ambienti richiesti dal libretto, rispettato in ogni minimo dettaglio, fino a giungere all’atto finale in cui la tomba, simboleggiata da un insieme di tozze colonne decorate a bassorilievo tra loro ravvicinate, è sormontata da un grande velo serico trasparente e traforato che alleggerisce la struttura.
L’insieme è gradevole, farcito di un che di imperituro nel suo richiamarsi a una tradizione mai del tutto tramontata: ormai un classico del festival estivo veronese. Un poco priva di dinamiche e colori la direzione di Julian Kovatchev che evidenzia alcuni leggeri scollamenti fra buca e palcoscenico oltre a qualche esuberanza di troppo fra le file degli ottoni. I tempi staccati sono piuttosto larghi e l’intellegibilità dei temi non risulta sempre evidente a causa di una massa sonora a tratti imponente, ma purtroppo spesso troppo uniforme.
I protagonisti
Nel ruolo del titolo la bella voce di Hui He brilla particolarmente nelle mezzevoci, gestite con finezza e maestria, delicate e vibranti, ma al contempo perfettamente udibili anche nella vastità dello spazio arenano; sicura la presenza scenica, squillante ma ben governato l’acuto. Walter Fraccaro è un Radamés con qualche problema di proiezione del suono, che risulta un poco retroflesso; il personaggio che si delinea è vagamente incolore, privo di particolari slanci, aneliti o sfumature. L’Amneris di Ildikó Komlósi è figura di donna dilaniata e dicotomica, una donna che ha lottato per avere ciò che ha e che non vuole perderlo per nulla al mondo, elegante nella sua nobiltà: l’emissione a tratti è un po’ dura, ma il registro superiore appare molto solido e la linea di canto regolare. Regalmente dignitoso, ma dai tratti contemporaneamente selvatici, l’ottimo Amonasro di Ambrogio Maestri, il cui timbro appare particolarmente congeniale al ruolo. Ottimi il Re di Carlo Cigni, dotato di uno strumento brunito e ricco di colori, e il Ramfis di Rafal Siwek, particolarmente solido nel registro grave. Con loro il Messaggero di Francesco Pittari e la Sacerdotessa di Alice Marini.
Anfiteatro piacevolmente gremito, quanto non si vedeva da tempo, di un pubblico, come sempre, eterogeneo e colorato, prodigo di applausi e di entusiasmi.