Uno spazio bianco, con pochi elementi simbolici. Due corpi, sempre in bianco, quello dell’attore Danio Manfredini, che firma anche la regia e alcuni testi, e del suo doppio plastico, un manichino.
Dal bianco puro del nulla, l’attore, con la potenza del suo corpo e l’espressione vocale curata in ogni minimo tono, dà vita ai testi di Alberto Giacometti, Albert Camus e Mariangela Gualtieri, in un caleidoscopio di immagini minime, che aprono metafore e mondi del sottosuolo. Sì, quei mondi sotterranei di chi si sente diverso, o meglio, di chi li giudica diversi, perché questa parola è solo un’invenzione comoda, quasi una finzione, per classificare chi “deraglia” dal binario del comune. Chi è, poi, il diverso? Il pazzo che sembra più vivo del suo io reale, morto da tempo? Il musulmano che riflette sulla possibilità di un suicidio di massa derivante dell’inesistenza del dio occidentale? Il vecchio, rinchiuso nell’ospizio, che non si arrende e continua a cercarsi nella bellezza della sua solitudine?
Al presente è un lavoro che indaga nel dolore dell’estraneità e va a scavare nelle pieghe più profonde delle vite al margine, in cui l’attore si fa carico di tutte le emotività. Canzoni, danze, musiche, immagini di quadri, fotografie, e suoni registrati tra cui è possibile riconoscere la voce dolorante di Alda Merini, per dire che lo spazio bianco può essere anche proiezioni d’inconscio e di memoria. Alla fine di questo viaggio interiore, tra “aborti sotterrati” , rughe e silenzi, “non c’è niente da fare. Le parole, dentro, sono destinate a perdersi”.