Danza
ALCHEMY

Alchemy: i Momix alla conquista degli Elementi

Alchemy: i Momix alla conquista degli Elementi

Spendiamo subito il chiasmo richiamato dalle note allo spettacolo, perché di rado le figure retoriche sono così affidabili: l'arte dell'alchimia e l'alchimia dell'arte, che qui significano la lunga storia della ricerca dell'uomo di e dentro quegli elementi che compongono la natura ed anche la sua idealizzazione, e le capacità dell'uomo di giungere a sopraffini risultati tecnici quando siano pervasi da quella spinta interiore che chiamiamo arte. Le due parti di Alchemy, l'ultima produzione dei Momix di Moses Pendleton, distinguono Quest for Firewater e Led into Gold, componendo un mosaico che di consueto rispetto agli spettacoli precedenti ha soprattutto la poetica metamorfica e la visione a volo d'uccello sui simbolismi, che naturalmente data la materia viva alchemica su cui ora si dispiega, vengono ancor più esaltati dall'ispirata mano demiurgica del nostro Moses.

La prima parte del lavoro offre più illusioni ottiche del solito, una minore differenziazione ed una preponderante parte danzante che mette in risalto le doti non comuni dei dieci atleti/ballerini/performer, e lascia una porta aperta sullo sviluppo di ciò che ci aspetta. Ma ora fermiamoci un attimo, e giochiamo con la parola elemento... è interessante aggiungere questo ulteriore spunto perché elementi sono i 4 classici terra/fuoco/aria/acqua su cui si intesse la trama di Alchemy, ma elementi (di scena) sono anche i tradizionali ma sempre nuovi attrezzi con cui i Momix giocano e si confrontano ai limiti delle possibilità, e questa volta vanno dalle colonne ai tulle alle grandi coperture che le abili mani ed i corpi flessuosi trasformano in materia simile alla loro carne, fino a farci sforzare nel cercare di leggere eventuali imperfezioni assai rare.

In uno dei quadri, il pubblico napoletano quasi trasalisce, per la familiarità connaturata alla sua storia, poiché d’istinto è straordinaria la somiglianza fra un loro personaggio ed il patrimonio conservato sotto la cappella di Sansevero, ovvero le macchine anatomiche sotto forma di corpi totalmente scarnificati, opere di Raimondo di Sangro. Scorrono intanto immagini sullo sfondo a sostenere le storie danzate, e la colonna sonora mette insieme in modo interessante diciassette brani, da Four dimensional interaction di Sanjiva a Gilentium dei Magna canta (un canto gregoriano in versione techno), da Lighten up! di A Positive Life al più largo utilizzo di Ennio Morricone, che spazia da Once upon a time in America fino a The mission che accompagna il finale.

Fra i vari quadri che si susseguono, il ricordo più indelebile è quello che viene consentito dal disegno delle luci di Michael Korsch: un Pas de deux sotto superbi fasci di luce puntinizzati che da soli valgono una intera scenografia e l'emozione di uno spettacolo, e che compiono il romantico risultato di mettere insieme quella Rosa alchemica di William Butler Yeats già ricordata dalle note ("...scostai le tende e guardai fuori nel buio, e alla mia fantasia turbata tutti quei puntini di luce che riempivano il cielo parvero i fornelli di innumerevoli alchimisti divini, che lavorassero continuamente a trasformare il piombo in oro, la stanchezza in estasi, i corpi in anime, la tenebra in Dio; e di fronte alla loro opera perfetta avvertii il peso della mia condizione di mortale, e invocai a gran voce, come tanti altri sognatori e letterati di questa nostra età hanno invocato, la nascita di quella raffinata bellezza spirituale che sola potrebbe sollevare e rapire anime gravate di tanti sogni...") e la sublime leggerezza della Passeggiata di Chagall...

Dopo incantevoli statuine da carillon dalla magnifica eleganza, gli specchi, la perfezione stilistica ed emotiva delle linee disegnate nell'aria dalle 3 danzatrici su corde aeree ed i volteggi finali su calamite di legno che fanno il loro mestiere ancor meglio dei magneti, la sensazione forte è che Pendleton sia riuscito ancora una volta, ebbene si, a sorprendere, sia con l'ispirazione sia con le soluzioni scenotecniche, che riesce a far apparire perfino semplici, e fino all'ultimo istante, con il loro modo sempre diverso di venire a prendere gli applausi, quasi a far riecheggiare le sue stesse parole: “da qualche parte c'è sempre l'oro, se scavi a fondo”.

Visto il 10-02-2015
al Bellini di Napoli (NA)