Lo spettacolo, “Aldo morto”, scritto e interpretato da Daniele Timpano – che nel ’78 aveva solo quattro anni – vanta importanti riconoscimenti, in qualità di vincitore del Premio Rete Critica 2012 e finalista del premio Ubu come migliore novità italiana.
Ciò che, di primo acchito, colpisce l’occhio della platea è la quota non certo irrisoria di giovani, di ragazzi che di Moro vivo non hanno potuto ascoltare la voce, e il cui lasciapassare per una conoscenza relativamente compiuta, dell’uomo politico, e altrettanto approfondita, del padre di famiglia, è affidato pressoché ai canali di informazioni postumi, raccolte, testimonianze vagliate da altri. Nel bene e nel male.
Realismo ironico
L’attore sul palco brandisce con fermezza e costanza l’arma vivace dell’ironia; ora sferzante, ora urticante, a tratti fastidiosa. Invero, la complessiva vicenda del sequestro e della morte di Aldo Moro è permeata interamente da un piglio ove le battute più caustiche fremono in agguato, al punto da far suonare la messinscena a volte irriguardosa fino all’irritazione – a seconda della sensibilità d’ognuno – che sorge dal contrasto stridente tra i toni adoperati e gli argomenti trattati. Uno dei punti di forza, invece, risiede nel realismo, nudo fino all’estremo, con cui s’apre lo spettacolo.
All’inizio di tutto – seguito solo da un incipit ostentatamente asettico e sbrigativo con cui si comunica l’uccisione del presidente della Dc – a parlare con gli spettatori, rivolgendosi a loro quasi come se fossero tutti nel salotto di casa, vi è Daniele, un ipotetico figlio di Moro, le cui narrazioni personali sono frutto di una riunione di dati racimolati dalle (auto)biografie dei figli reali. In un crescendo di notizie apprese circa Aldo Moro non solo vivo, ma anche quotidiano e familiare, viene descritta, con affetto filiale, anche la maniera metodica con cui sbucciava l’arancia, che negli occhi fanciulli d’un bimbo adorante, assume la solennità d’un rito vero e proprio. Il corollario, coerentemente conseguente a una scelta improntata alla preferenza del realismo sul lirismo, è l’esternazione – pregevole in quanto veritiera, o, per lo meno, verosimile – di sentimenti ambivalenti e contrastanti, un misto d’ammirazione e d’avversione, del “figlio” verso il padre.
Una lettura insolitamente attuale
C’è da ammettere che il testo, nonostante il titolo, non è incentrato solo sul “caso Moro”, ma è piuttosto aperto al ventaglio variegato e complesso della società italiana negli anni ’70. Un focus non secondario è dato a personaggi afferenti alla Sinistra di allora, anche alle Brigate Rosse. Un momento cruciale, difatti, si ha con la storia di Renato Curcio, raccontata di schiena, in uno dei pochi scampoli di performance strappati all’ironia più pervasiva ed esacerbata. Daniele Timpano, l’attore e l’uomo – come spiegherà meglio a fine spettacolo, parlando al suo eterogeneo pubblico – ora s’estrania, ora aderisce alle istanze rivoluzionarie di chi avverte su di sé un’insoddisfazione cocente per una realtà e un futuro che la nostra Italia odierna, anche a livello politico, infligge e pare prospettare.
L’artista, dunque, si fa carico della sua narrazione esperienziale, esprimendocela senza falsi moralismi né finti pudori – questo è forse l’aspetto più meritorio del suo lavoro – e si avvale di racconti all’apparenza datati – come gli avvenimenti sanguinari di quarant’anni fa – per trasporli e ridisegnarli in un oggi che di quelle vicende è di sicuro erede, e, come tale, ne porta il marchio.
Spettacolo: ”Aldo morto”
Visto al teatro Invito di Lecco.