Scritto al termine dell'epoca del romanticismo, "Woyzeck"di Georg Buchner oggigiorno viene considerato un testo di straordinaria modernità. Chiunque l'avesse letto si stupisce, non tanto della trama stessa basata sulla vera storia di un barbiere di Lipsia giustiziato per aver assassinato l'amante a causa della gelosia, quanto del modo in cui è stata scritta. La sua struttura frammentaria e la reticenza dei dialoghi lo fanno assomigliare a un copione cinematografico, permettendo ai registi moderni di spaziare liberamente nella sua interpretazione.
Solitamente, la storia di un piccolo uomo - il vessato soldato Woyzeck - viene rappresentata come un'esistenziale dramma dell'eroe che si imbatte nell'insensatezza della propria vita. Tuttavia gli ideatori del nuovo lavoro del CRT "Ombre Wozzeck" hanno deciso di guardare più in profondità, cercando di attribuire al contenuto un significato più intenso, sostenuto da una soluzione scenica di un impatto decisamente particolare.
Come genere è stato scelto il teatro di figura e, più precisamente, quello delle ombre. Tutto accade dietro un telo bianco. Le sagome dei personaggi si muovono, trasformate per volontà del regista Claudio Morganti, in anime morte. L'autore di quest'insolita interpretazione lo spiega come un tentativo di ritrovare una nuova esegesi psicologica del dramma di Buchner attraverso delle forme plastiche. Tuttavia, vista da vicino, questa "versione scenica", più che una ricerca, appare come un desiderio di ridurre il vivo contenuto della piecé in un rettificato e semplificato riassunto. La sceneggiatrice Rita Frongia, con una serie di risolute sforbiciate, ha eliminato molti dialoghi, già di per sé corti e spesso incompleti, trovando, probabilmente, come scusante il fatto che il "Woyzeck", in sostanza, è rimasto una bozza, per cui ogni taglio, aggiunta o "rimontaggio" degli episodi risultano ammissibili. Tra questi ultimi, c'è uno dal quale Morganti sembra essere rimasto particolarmente toccato. A giudicare dal risultato, la sua fantasia ha avuto la spinta maggiore dalla breve scena all'interno di un teatrino di strada che all'origine è concentrata in una dozzina di righe. Perciò il tono dello spettacolo è dato, da un lato, da una malinconica atmosfera in toni bianchi e grigi delle ombre e, dall'altro, dalla grottesca recitazione di due eccentrici personaggi collocati sul proscenio il cui ruolo resta poco chiaro fino alla fine.
A suo tempo, il fondatore della biomeccanica teatrale, Vsevolod Mejerhold aveva notato che "nell'intreccio tra forma e contenuto esiste un terzo elemento: il modo in cui questi due elementi interagiscono tra loro". Spesso accade che fantasia, esperienza e volontà del regista si trovino dominate da un elemento costruttivista. In questo modo, sostituendo l'immagine e il carattere del personaggio con un simbolo, si rischia di astrattizzare e di restringere troppo anche l'idea stessa del componimento, rendendola subordinata a uno schema immediato e povero.
Il teatro delle ombre sicuramente è uno strumento efficace, soprattutto quando una metafora si presenta come il miglior modo per esprimere una complessa e sofferta idea dell'artista. Tuttavia, come ogni linguaggio allegorico, questi diventa valido soltanto se usato come un mezzo e non una meta. Solo in questo caso il pensiero metaforico del regista acquisirà la ricchezza del contenuto per colpire lo spettatore con il colorito delle associazioni. Altrimenti non sarà altro, artisticamente parlando, che una sbiadita dimostrazione della sua bravura tecnica, fine a se stessa.
Un esempio interessante potrebbe essere fornito dal recente lavoro di Enzo Vetrano e Stefano Randisi "L' uomo dal fiore in bocca e Sgombero" presentato al Teatro Carcano. Gli autori fanno ricorso alle ombre in alcuni momenti dello spettacolo per sottolineare e rafforzare il pensiero drammatico di Pirandello sulla morte, spostando i personaggi dal mondo reale, tridimensionale, in quello bidimensionale, dell'aldilà. L'effetto che viene raggiunto è di notevole impatto. Non si può dire lo stesso del "Ombre Wozzeck" dove i vivissimi personaggi di Buchner, estirpati dal loro ambiente naturale e trasformati in bicromatiche e immobili ombre cinesi, si appiattiscono e perdono di individualità. Svanisce la frenetica ecitazione di Woyzeck, l'imponenza del Capitano, la mesantropica delicatezza del Dottore e l'ambiguità di Maria...Tutto diventa statico e indolente, a differenza del testo originale, che si legge tutto d'un fiato.
L'impressione che alla fine si ricava è proprio quella che il regista si è caduto nella trapola di cui scrive Peter Brook nel suo libro "Lo spazio vuoto" : "Noi vogliamo magia, ma la confondiamo con il gioco di prestigio".
Olga Romanova
Visto il
26-01-2012
al
Tordinona - Sala Pirandello
di Roma
(RM)