Prosa
AMADEUS

Amadeus, basta la parola.

Amadeus, basta la parola.

Il primo fu Alexandr Puškin (nella “piccola tragedia” dal titolo Mozart e Salieri), poi venne Peter Shaffer (Amadeus) ed infine Miloš Forman (con la versione cinematografica di Amadeus): la leggenda della possibile morte per avvelenamento di Mozart per la subdola mano di Antonio Salieri, il Kappellmeister imperiale italiano, è una di quelle favole che fanno bene alla mitologia, in questo caso si direbbe all'Epica, mentre magari potrebbe bastare l'aver letto le grandi biografie di Bernhard Paumgartner e Volkmar Brauenbehrens, per rimettere i fatti nella giusta posizione storica, ovvero della leggenda pressoché impossibile.

Lo stesso sia per l'invenzione dello stereotipo del genio scevro dalle fatiche, il bimbo ancestrale dal quale emanano sublimi melodie ispirate quasi per grazia divina, che al di là del piacere dell'immaginazione quasi offendono un artista che si consumava nella scrittura come e molto più degli altri, soprattutto se consideriamo anche il percorso infantile sotto la guida del padre Leopold.

Ma come spesso accade, una storia può avere anche ben poco di reale o realistico da offrire, e non per questo muta il suo saper essere in sé oggetto di narrazione riuscita; dimentichiamo la storia vera dunque, e guardiamo alla bella favola raccontata da Peter Shaffer e messa in scena dalla regia di Alberto Giusta, dove invidia e gelosia compongono un quadro ben congegnato attorno al quale far ruotare quell'Antonio Salieri (Tullio Solenghi) maestro di cappella presso la corte asburgica che dovette subire l'onta del ri-conoscere il Genio assoluto proprio mentre la sua fama gli stava portando unanimi ossequi, e quell'astro incomparabile destinato a rovinargli i suoi ultimi anni (Aldo Ottobrino).

La vera tragedia di questo rapporto, non fu nelle misurabili evidenze pubbliche: in termini di successo, fama ed onori Salieri rimase sempre molti gradini istituzionali più in alto rispetto all'avversario (se così qualcuno può mai pensare di definirlo...), bensì nella circostanza molto più sottile, profonda e spietata che Salieri era semplicemente abbastanza bravo da accorgersi molto bene, di ciò che aveva di fronte: mentre il pubblico fondamentalmente convenzionale e svogliato tributava onori al Kappellmeister, lui si consumava di rabbia perché aveva colto l'enormità di quella differenza, fra la sua mediocrità e l'altrui Genio. Questo è un punto fondamentale anche nella recitazione, perché nonostante alcuni accenti parodistici cui si lascia andare (possiamo dire stonati?), va riconosciuto a Solenghi di aver saputo tenere distinti questi due stati d'animo quando essi si sono presentati, fino ad unirsi poi in uno difficile quanto duro mélange di emozioni contrastanti nella parte del racconto in cui si trova al cospetto del Requiem.

I costumi e la scenografia concedono una giusta e piacevole immersione nell'epoca (una cosa divenuta ormai alquanto rara, detto con l'intenzione di evidenziare che alcune storie sono fatte anche di tessuti, legno ed oggetti, e non sempre le operazioni di spoglio delle scene producono effetti sensati), e la narrazione è scorrevole e ben strutturata, sebbene sia necessario fare molto affidamento sulla sua resa descrittiva verbale, per far apparire e scomparire anni di situazioni e personaggi, e sarebbero stati ben accetti maggiori inserti per spiegare la nascita dei passaggi musicali. In una prova generale molto buona degli attori, del Mozart di Ottobrino colpisce la presa sul personaggio che interpreta nella prima parte dello spettacolo (ricordiamo sempre a quale favola stiamo assistendo), abbandonato del tutto alla sua parte esageratamente esuberante, mentre risulta meno convincente il passaggio alla fase buia, ossessionata, terrorizzata; ma anche questo, in fondo, ossequia un mito divenuto leggenda per conto suo, possibile storia nella Storia.

Visto il 02-12-2014
al Mercadante di Napoli (NA)