Mentre il pubblico accede in sala, sul palco campeggiano otto cavalieri con altrettanti nomi, disposti su quattro file: Gertrude e Laerte, Amletò Ofelia e Claudio, il Re, e in fondo, in quarta fila, Guillame e Rose.
I personaggi entrano a suon di musica, uno dopo l'altra, si posizionano dietro i propri cavalieri, mentre una luce sagomata delimita lo spazio, la biacca sul volto, i visi svagati, ognuno e ognuna eseguendo un ventaglio di smorfie per esplicitare, tra pantomima e iperbole, un sentimento nascosto, un moto dell'animo, il percorso di un pensiero; solo Claudio rimane di proscenio, seduto, l'aria vaga, come un Pierrot appena meno nostalgico.
Poi i cavalieri, opportunamente manovrati, mostrano un'altra parola che descrive una loro qualità (Amleto è ingenuo, Ofelia suicida, Gertrude è ignava) un soprassalto generale accompagna lo svelamento di quella di Claudio: usurpatore.
A metà tra le figure umane icastiche e naïf del cinema muto e quelle da feuilleton fin de siécle i personaggi di Amletò imbastiscono un racconto basato sulla sola forza della mimica, sostenuto dalla musica che contribuisce a una narrazione emotiva e onirica dove quel che importa non è seguire lo svolgimento della trama ma apprezzare le implicazioni che anticipano o seguono i fatti come in certi sogni lunghi e complessi.
La drammaturgia si attesta così sul non detto agendo direttamente nell'immaginario collettivo del pubblico chiamato non a decifrare i simboli messi in scena ma a lasciarsene coinvolgere, sedurre, irretire.
Il re serafico, essendo fantasma, indossa un velo bianco sopra il capo, Gertrude e Claudio amoreggiano davanti a tutti di proscenio; Amleto magro e secco come Pinocchio ha qualcosa ancora del bebè, che infatti vediamo portare in carrozzina (quelle di una volta con le quattro ruote grandi) da Gertrude e il Re e, una volta cresciuto, è bramato da tutti i suoi amici che escono dall'armadio (letteralmente) cercando di divorarlo.
I personaggi dell'Amleto shakespeariano vengono trasportati agli inizi del Novecento (quando Amleto padre prende le spoglie del Kaiser e Amleto figlio si districa con una bandiera danese) arrivando fino all'avvento del nazismo quando Guillame (un incrocio tra il Conrad Veidt de Il gabinetto del dottor Caligari e il compianto Brandon Lee de Il Corvo) nei panni di un ufficiale delle SS tortura la famiglia Amleto priva di qualunque segno distintivo (se si esclude la pettorina rossa di Amletò che ricorda vagamente nella forma il triangolo diversamente colorato nei campi di sterminio).
Fuggita miracolosamente dai nazisti la famiglia Amleto si rifugia in Francia all'Hotel du Nord dove le loro storie si contaminano con quelle raccontate dal film di Marcel Carnè.
Amletò si rifiuta di vendicare il padre (che apparsogli fantasma gli rivela di essere stato assassinato da Claudio) e chiede a Ofelia di suicidarsi con lui (come i due fidanzati protagonisti del film di Carnè) ma Ofelia preferisce morire da sola con grande stizza infantile di Amletò.
Intanto alla pantomima onirica e con molte azioni fisiche degne del miglior surrealismo cinematografico (sostenute anche da una felicissima invenzione scenografica come la struttura in ferro battuto che, opportunamente allestita, diventa l'automobile con tanto di fari, sulla quale la famiglia Amleto fugge dai nazisti) si aggiunge il parlato un francese maccheronico - più che grammelot come vorrebbe Sepe - piegato alle sonorità dell'italiano: je suis fâchée diventa je suis arrabbiè ma la promesse che, pure, è più vicino al corrispondente sostantivo italiano, diventa inspiegabilmente la promis, indulgendo verso una comicità facile che fa collassare l'elegante raffinata e onirica cifra dello spettacolo (che nasce evidentemente da un percorso di ricerca laboratoriale) in un gioco fine a se stesso.
Prima del grammelot le coordinate colte entro cui Sepe costruisce il discorso drammaturgico, fra teatro non di parola e il cinema muto, si innervano nelle fondamenta di un immaginario collettivo drammatico cui lo spettacolo contrappone quello altrettanto evocativo del cinema del fronte popolare francese , impiegando una struttura narrativa a-logica di grande efficacia, dove i cliché e gli stereotipi del teatro e del cinema sono usati sempre come riferimento a qualcosa d'altro e, così fuori contesto, sono presentati al pubblico nella loro problematicità di costrutti umani e non di archetipi naturali.
L'impiego dello pseudo grammelot prende la mano al regista che non riesce a resistere alla tentazione della
farsa, mai grossolana e, anzi sempre misuratissima, anche quando strizza l'occhio al pubblico, diventando però autoreferenziale limitandosi - nel gioco di specchi deformanti da luna park - a parlarci della deformazione e non più della maschera da cui si è partiti.
Per quanto divertente lo pseudo grammelot invoglia alla ricerca un po' facile della battuta sia quella delle parole (Amletò chiede al fantasma del padre se lui être o non être oppure si informa comment ça va avec la mort)
che quella di situazione (Amletò individua il punto in cui Ofelia si è tolta la vita in una parte precisa del palco cambiando continuamente idea, indicando smepre punti diversi, mentre tutti gli altri personaggi lo seguono lamentandosi secondo il più classico dei cliché à la française (con tanto di oh là là) finendo per banalizzare il discorso intrapreso fino a quel momento.
Dispiace per esempio la svogliatezza con la quale Amletò accetta il compito di vendicare il (fantasma del) padre, decostruendo uno degli archetipi del teatro più diffusi (conosciuto anche da un pubblico non propri abituato a frequentare le platee), per proporcene una alternativa narrativa semplificatoria che si limita a ridurne la complessità invece di suggerire il parallelo con una complessità altra come lo spettacolo ha magnificamente fatto fino a quel momento.
Amletò manca di una vera conclusione narrativa che alla tesi della parte mimata e all'antitesi del grammelot proponga una sintesi drammaturgica della quale si sente la mancanza tanto più che nella seconda parte alcune lungaggini e ripetizioni tradiscono la consapevolezza di un discorso cui il grammelot fa venire il fiato corto cui si cerca di sopperire in qualche modo, senza davvero riuscirci.
Attori e attrici ci regalano dei personaggi memorabili dall'Amleto-Pinocchio di Guido Targetti, infantile e innocente, all'Amleto padre di Manuel D'Amario capace di apparire possente quando fa il fantasma o il Keiser, grazie alla bravura dell'attore e non meramente alla sua corporatura regolare e non fuori misura. Seducenti e inquietanti Guillame (Mauro Racanati) e Gertrude (Teresa Federico), deliziosamente infido il Claudio di Yaser Mohamed svagata l'Ofelia popolana di Federica Stefanelli e muliebre la Rose di Elena Fazio, ognuno e ognuna all'altezza del ruolo difficile e impegnativo - anche fisicamente - richiesto loro da Sepe.
Amletò è uno spettacolo bel al di sopra degli standard del teatro off nazionale contemporaneo (e non solo) che si riallaccia a una ricerca seria che in Italia non si fa più da almeno una trentina d'anni poco importa se nel farla si dimentica che la commedia non si addice ad Amleto.
Prosa
AMLETò (GRAVI INCOMPRENSIONI ALL'HOTEL DU NORD)
La commedia non si addice ad Amleto
Visto il
04-12-2013
al
La Comunità
di Roma
(RM)